venerdì 13 ottobre 2017

Il giardino delle parole (2013) | Recensione

Il giardino delle parole
Voto Imdb: 7,6
Titolo Originale:Kotonoha no Niwa
Anno:2013
Genere:Drammatico, Sentimentale
Nazione:Giappone
Regista:Makoto Shinkai
Cast:Miyu Irino, Kana Hanazawa

Attenzione! Questa recensione è un estratto della Monografia su Makoto Shinkai. Ne ho fatta una versione separata ai fini di una bieca migliore indicizzazione dei motori di ricerca. Seguite questo link per leggere l'intero articolo! LINK

Livello di spoiler: LETALE [vi spiattello tutto, anche nel commento]

Un particolare del parco. Immaginatelo in movimento.
Non sapete quanto vorrei conoscere cosa è passato per la mente di Shinkai e come siano andate davvero le cose. L'artista mi ha sempre dato l'idea di non dare molta retta alle opinioni dei fan e di voler continuare imperterrito per la sua strada. Certo è che con Il giardino delle parole, è andato ad offrire forse il picco - fino ad oggi, beninteso - del suo stile narrativo, ovvero dare in pasto allo spettatore una non-storia, confezionata in modo superbo ed avvolgente. Non saprei trovare altre parole per descrivere il mediometraggio di 46 minuti scarsi in questione. Mi spiego meglio: fino a che punto Shinkai ha ascoltato (o non ascoltato) le critiche dei fan su Viaggio verso Agartha? Il fanboy si aspettava un'opera di pippe mentali esistenziali adolescenziali e l'autore se ne è uscito con un bellissimo, ma imperfetto, film avventuroso dove ha deviato grandiosamente rispetto al sentiero che fino ad allora aveva percorso, ed è questo il motivo principale delle critiche piovutegli addosso. Il giardino delle parole è quindi un deciso, eclatante, ritorno alle origini, è come se fosse esattamente quello che gli appassionati chiedevano. Fino a che punto allora Agartha è da considerarsi un incidente di percorso, e fino a che punto invece Il giardino delle parole è stato un voler accontentare la voce del popolo? Insomma, qual è il vero Makoto Shinkai?
Trama (gli spoiler partono da qui)
Shinjuku Gyon, il polmone verde dell'omonimo quartiere
Takao è uno studente quindicenne di Tokyo con uno strambo sogno nel cassetto: quello di diventare un abile calzolaio. Sì, proprio uno di quei lavori di fine artigianato che stanno scomparendo, inghiottiti dalla grande produzione industriale standardizzata e che mai immagineresti come ambizione personale di un ragazzo che vive nella capitale. Siamo in estate ed è appena iniziata la stagione delle piogge. Se la mattina piove, Takao bigia la scuola e si rifugia nel parco di Shinjuku Gyoen, dove in solitudine passa il tempo ad esercitarsi sui disegni di scarpe, la sua unica e vera passione. Durante una di queste mattine uggiose, sotto la stessa tettoia, incontra una misteriosa donna, che legge in silenzio un libro, mangia barrette di cioccolata e beve birra. Lo stesso accade il secondo giorno di pioggia - lui bigia, lei non si presenta al lavoro - poi il terzo e così via, trasformando un incontro casuale in una sorta di ripetuto rituale, ma sempre e solo rigorosamente nei giorni di pioggia. Quando c'è il sole, lui si ripresenta in classe e lei... non si sa.
Scena di uno degli incontri.
Come è ovvio immaginare, i silenzi iniziali si trasformano in parole scambiate di sfuggita per sfociare in dialoghi dove entrambi imparano a conoscersi sempre di più, pur senza essersi mai presentati ufficialmente. Di Takao sappiamo che vive col fratello maggiore e la madre e che pur di inseguire il suo sogno, nel tempo libero è disposto a fare lavori part time; è timido ed introverso, ha pochi amici e difficilmente si confida con qualcuno. Della donna sappiamo che si chiama Yukari, ha 27 anni, ben 12 in più del ragazzo, e che sta soffrendo di disturbi alimentari, associati ad un elevato stress dovuto a qualcosa capitatole in passato. Quando la donna manifesta un certo interesse nei disegni di Takao, ecco che lui, per la prima volta, apre il suo cuore e confida ad una perfetta sconosciuta i suoi sogni. Colpita dalle parole del ragazzo, Yukari gli regala un costoso libro sull'arte della fabbricazione di scarpe. Toccato dal dono, Takao vuole assolutamente ricambiare costruendo con le sue mani delle scarpe bellissime da regalare a Yukari. Non ci vuole un genio per capire come sia facile, per un adolescente dello stampo di Takao, prendersi una cotta per una bellissima donna, matura e misteriosa a causa della sua reticenza nel parlare di sé. Più passano i giorni, più entrambi, segretamente, sperano che la pioggia continui per potersi rivedere nella splendida cornice offerta dal parco. Arrivano le vacanze estive, finisce la stagione delle piogge e il sole torna a splendere come non mai... ed entrambi, mantenendo assurdamente fede al rito, smettono di recarsi al parco; il ragazzo lavora per racimolare soldi, lei cerca di trovare una direzione, un senso alla sua vita. Quando la scuola riprende, camminando per i corridoi antistanti le classi, Takao incrocia Yukari, che viene salutata con deferenza da alcuni studenti: nel modo più imbarazzante possibile, scopriamo che lei ha lavorato come insegnante proprio nella scuola del ragazzo e che si era presa una pausa per alcuni problemi. Un compagno di classe racconta al ragazzo cosa fosse successo realmente: uno studente si era follemente innamorato dell’insegnante, e qualche compagna di classe, indispettita e gelosa, aveva fatto circolare brutte voci sulla professoressa, creando uno scandalo non indifferente. Pur incolpevole, Yukari aveva preferito allontanarsi dalla scuola per riprendersi dallo shock e, detto con parole sue, "per riprendere a camminare con le proprie gambe." Quella mattina, però, lei si era presentata per dare le proprie dimissioni dalla scuola. Takao, ormai irrimediabilmente ottenebrato, non ci sta: rintraccia la ragazza che aveva fatto circolare le brutte voci e le rifila un sonoro ceffone. Il risultato è una rissa col moroso di lei, che lo pesta malamente. Lo stesso pomeriggio, malconcio e in un certo qual modo orgoglioso per aver agito da macho nonostante ne abbia prese un sacco e una sporta, Takao ritorna al parco, certo di poter rivedere la donna. Proprio quando si incontrano, si scatena un violentissimo temporale, a causa del quale i due sono costretti a trovare rifugio nella casa di lei. Sarà il clima informale, sarà l'effetto della tempesta, sarà l'imbecillità insita in un normale quindicenne impacciato nonché in preda all'ormone, ma Takao sceglie proprio questo momento per dichiararsi a Yukari; la donna lo respinge, immaginiamo tutti non senza dispiacere, facendo scappare il ragazzo con la coda fra le gambe. Nella mente della donna scatta un mega flashback con tanto di canzone come nel miglior stile di Shinkai, alla fine del quale Yukari si precipita all'inseguimento di Takao. Siamo alla fine della storia e arriviamo al confronto che tanto impazientemente stavamo aspettando. Sulle scale del palazzo, mentre il sole fa nuovamente capolino, i due litigano, lui a dirle che la odia per averlo illuso, lei in lacrime perché schiacciata dall'imposizione di una società che non le potrà far accettare l'amore di un ragazzino molto più giovane di lei. Takao e Yukari, in un mare di lacrime, si abbracciano senza dire altro. Passano sei mesi, lui supera a fatica l'esame finale della scuola e colmo di orgoglio si reca per un'ultima volta al parco di Shinjuku con una lettera in mano ed un paio di bellissime scarpe, quelle che lui ha finito di preparare per Yukari, e che lascia sulla panchina deserta, con la speranza che lei un giorno possa tornare a prenderle, pronta "a camminare con le proprie gambe." Nella scena post titoli di coda, scopriamo il destino della donna: ripreso il lavoro di insegnante in un'altra città, guarda verso l'orizzonte sospirando: i suoi pensieri sono sempre rivolti a Takao, che nello stesso momento si sta allontanando dal parco, certo di poter incontrare nuovamente Yukari, quando entrambi saranno pronti.
Sono un fan dei disegni di Shinkai, non so se l'avete afferrato.
Tokyo in un giorno di pioggia.
Commento (gli spoiler continuano, perdinci)
C'è qualcosa di strano ne Il giardino delle parole, e per spiegarlo vi racconto un velocissimo aneddoto. A guardarlo sono io in salotto, con La Moglie seduta di fianco che spippola sul cellulare, divisa tra la visione distratta del film e Marvel Puzzle Quest a cui sta giocando in quel momento. Arrivati a metà visione, estasiato dallo splendore dei disegni e dalle vette clamorose a cui Shinkai è arrivato in così poco tempo in confronto ai lavori precedenti, ecco, proprio mentre sto per esternare il mio apprezzamento, La Moglie mi fa morire qualunque frase stessi per pronunciare guardandomi negli occhi, la sua bocca a forma di O, dicendomi semplicemente: "Ma che palla è?"
Colpito da queste parole con l'effetto di una frustata, mi sono zittito e ho continuato nella visione, rimuginandoci sopra in mesto silenzio. Poi ho capito. Shinkai, per l'ennesima volta, è riuscito a fregarmi, sempre con lo stesso metodo, questa volta ingigantito nel bene e nel male. Questo film ripiomba esattamente negli stessi problemi di quelli precedenti ad Agartha, anzi li estremizza; il regista torna a stupire per la meticolosità dei disegni e dei particolari, ma lo fa davvero in modo pazzesco, a memoria non ricordo di aver visto una qualità visiva così elevata (Your Name. lo supererà, tranquilli).
La quiete dopo la tempesta.
Basta guardare le foto reali del parco di Shinjuku Gyoen e confrontarle con i fondali mostrati qui: la verosimiglianza è notevole, non posso fare a meno di applaudire convinto. Il giardino delle parole è però fottutamente lento, è uno stillicidio di azioni che si ripetono; cambiano i vestiti, le inquadrature, le parole scambiate, ma è un continuo rincorrersi di sguardi e frasi brevi, incorniciate da un'ambientazione in cui il tempo sembra fermarsi, sospeso tra le nuvole e il verde cangiante degli alberi del parco. Il tono delle voci, soprattutto dell'io narrante (Takao), è sussurrato e per giunta irritante nel suo continuare a mantenersi sullo stesso registro per la maggior parte della narrazione. Le solite angoscianti note strimpellate sul pianoforte fanno da contraltare ad una, per me, bellissima canzone a tre quarti, ma la sostanza non cambia: Shinkai è riuscito nell'intento di non raccontare NULLA rendendolo comunque interessante. Certo, se seguite distrattamente il film come ha fatto La Moglie, sarà inevitabile giungere alla conclusione di aver assistito alla versione malriuscita di 2001 Odissea nello Spazio interpretato da un adolescente depresso mentre fuori piove sempre e non succede un cazzo di niente. Il giardino delle parole, per poter essere assaporato fino in fondo, richiede attenzione, non tanto cognitiva nel seguire la storia (che non c'è: la sceneggiatura si può riassumere in una paginetta scarsa), quanto nel seguire i particolari infilati a forza in ogni inquadratura. È un film che vuole essere assaporato come una musica ascoltata alle cuffie, nel buio della cameretta, con la differenza che non devi stare ad occhi chiusi, ma devi tenerli ben aperti. Il film, va detto, contiene dei momenti davvero ben realizzati, indipendentemente dallo svolgimento della storia.
Tentativo di seduzione involontario? Chissà.
Per esempio, tutta la parte in cui la regia segue con esagerata attenzione i movimenti di Takao mentre prende le misure dei piedi di Yukari per iniziare a disegnarle le scarpe, è molto intenso e aggiunge perfino un tocco di sensualità alla scena pur non essendoci un secondo fine erotico per nessuno dei due; lo stesso uso della pioggia come mezzo narrativo per sottolineare l'intensità delle emozioni in gioco è interessante: se all'inizio le gocce sono semplici ticchettii gentili che danno il via agli eventi, sarà con il temporale finale che finalmente i due troveranno modo di chiarirsi in un turbinio di emozioni; infine, a chi critica una mancanza di conclusione della storia, posso rispondere dicendo che, in fondo, il finale è chiaro e ben delineato, sta solo alla sensibilità di ciascuno il compito di immaginare un futuro per i due. Proseguendo nella tradizione tutta nipponica in cui lo spiegone diventa inutile e ridondante, anche in questo film non è necessario vedere con i propri occhi come proseguirà la storia. Per me è palese che lei indosserà quelle maledette scarpe, è lapalissiano che le strade si incroceranno nuovamente per entrambi e che... chissà, in futuro possano mettersi davvero insieme, lasciando alle spalle le convenzioni che, in una società ancora chiusa come quella giapponese, inevitabilmente continuano ad essere un ostacolo.
Uno dei (tanti) momenti di incontro nel parco.
La storia d'amore, se così vogliamo definirla, è chiaramente platonica, noi assistiamo semplicemente a momenti in cui due personaggi che vivono in solitudine, cercano di riempire il vuoto dentro solo grazie al fortuito incontro vissuto nel giardino. Magari per qualcuno di voi sarà ovvio l'esatto opposto, che quella di Takao era una semplice infatuazione adolescenziale come ne succedono a milioni durante quell'età e che, quando sarà adulto per davvero, lui stesso la relegherà in un angolino come "semplice ricordo di gioventù". In fondo, anche questo è il bello di un film del genere, non lo vedo necessariamente come un peccato grave. Ci può, al limite, rimanere il dubbio su cosa volesse davvero comunicarci il regista. Io una risposta ce l'ho: nulla. Colpo di scena, vero? Shinkai non vuole comunicarci un messaggio, lui vuole solo emozionarci. Di difetti, come sempre, ce ne sono anche qui, altrimenti non parleremmo di un film tipicamente "shinkaiano". La lentezza, come già detto, per molti diventerà una zavorra allucinante; la sceneggiatura, in alcuni suoi passaggi, soffre di notevole ingenuità. Il simbolismo ripetuto ad ogni piè sospinto (notare il mio finissimo gioco di parole) per il quale saranno le scarpe di Takao a far camminare Yukari con le proprie gambe ha sfracellato i maroni già alla seconda volta in cui ci viene mostrato. Come successo in altri lavori, nemmeno questo film si salva dal difetto di essere poco bilanciato: la lentezza esasperante prosegue per quasi tutto il film, fino ad arrivare ad una brusca accelerazione giusto negli ultimi dieci minuti. Mi si dirà che è cosa voluta, ma a me ha lasciato un po' l'amaro in bocca; avrei preferito senz'altro una compressione dei minuti di tedio iniziale a favore di un maggiore sviluppo dei personaggi, soprattutto di Yukari che, pur essendo interessante e affascinante, non decolla veramente se non in qualche scena sporadica (quando è sola a casa sua, quando insegue Takao per le scale del palazzo). 
Il fratello di Takao e la morosa. Uno dei pochi momenti
in cui non vediamo né Takao né Yukari.
Commento Bis (ok, finiti gli spoiler)
Mi sfugge come sia possibile riuscire ad essere interessanti raccontando il niente, eppure con Il giardino delle parole è successo. La formula magica di Shinkai continua ad evolversi e migliorarsi di film in film. Se Viaggio verso Agartha era un non del tutto riuscito tentativo di tirare fuori un film Studio Ghibli più cazzuto e che tuttavia riesce a farsi apprezzare, è Il giardino delle parole a risultare il film più adulto di Shinkai, anche più del tanto acclamato 5 cm al secondo. Lo è, perché chiede allo spettatore una sorta di patto: "Sei disposto a calarti completamente nelle mie atmosfere e riflessioni, abbandonando il concetto di film = storia da seguire per quello che succede, e abbracciando quello di film = emozione attraverso una o più sequenze di immagini?" Se lo spettatore lo rifiuta perché non è pronto o per scelta personale in quanto il suo concetto di cinema è ben altro (assolutamente accettabile e plausibile!), il suo giudizio finale non sarà che estremamente negativo. Personalmente, dopo aver visto più di un film dell'autore e dopo averlo "conosciuto" per il suo stile e il suo modo di porsi, posso dire di aver imparato ad accettarlo e, perché no, apprezzarlo almeno in parte. Il giardino delle parole non è originale, non è trascinante, forse non è nemmeno cinema, ma è una esperienza visiva da provare almeno una volta. Se poi il tedio prenderà il sopravvento, pazienza: sono solo 46 minuti, ci sono ben altri film che durano anche il triplo dopo i quali potreste aver pensato di aver buttato via il vostro prezioso tempo.


Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama:
4
dai, diciamolo chiaramente, la storia non esiste e non è nemmeno il punto focale. C'è uno spunto narrativo interessante che non viene sfruttato (neanche ci prova, il Makoto), perché il suo obiettivo è un altro. Che funzioni o meno, è conseguenza del modo di porsi di ciascuno di noi.
Musiche:
5
sia messo agli atti che il pianoforte di Tenmon ha rotto le palle. Bella la canzone finale, davvero evocativa ma... per pietà, non se ne può più. Basta. Uccidetelo. Tenmon, dico. Cosa? Mi state dicendo che le musiche sono composte da Daisuke Kashiwa e non da Tenmon? Scusate, non me ne ero accorto, non ho notato la differenza, allora è proprio Shinkai a volerci ammorbare con un sound da prurito alle dita... e ditelo, eh.
Regia:
9
dal punto di vista qualitativo, prima di Your Name. questo film è stato il top assoluto di Shinkai, che registicamente parlando non sbaglia un colpo. Il film è da godere in silenzio, rapiti di fronte alla bellezza delle immagini.
Ritmo:
4
lento, lentissimamente lento. Non solo non succede nulla per tre quarti di film, ma quello che succede lo fa in modo lento. Ve l'ho detto? È lento. Cazzo se è lento.
Violenza:
4
non c'è violenza e non ho intenzione di riciclare la battuta che ho scritto su 5 cm al secondo. Ops, l'ho appena fatto.
Humour:
5
Non fa ridere né vuole farlo...
XXX:
1
nulla da segnalare, un punticino in più per la scena delle scarpe, magari qualche feticista apprezza pure. [3]
Voto Globale: 7
resta sorprendente vedere come il film si porti a casa un bel 7 nonostante tutte le voci, tranne la regia, abbiano degli eclatanti voti insufficienti. Per questo motivo, diventa importante chiarirci: se per voi la trama è tutto o ricopre un ruolo di spicco, come tra l'altro è giusto che sia, potete anche dimezzare tranquillamente il voto. Se per una volta vi lasciate vincere dalla tentazione di provare qualcosa di più zen e meno concreto, probabilmente finirete con l'apprezzare Il giardino delle parole. Un conto è non raccontare nulla risultando noiosi e per di più senza veicolare uno straccio di emozione; un altro conto è tirare fuori qualcosa di unico e diverso, dove l'estetica vince sulla sostanza ma lo fa meravigliosamente bene. Magari non vi resterà nulla dopo la visione, ma se l'avete apprezzato di sicuro vi verrà nuovamente la voglia di rivederlo, ve lo garantisco.

[3] Scommetto che le statistiche di accesso di Google mi riveleranno risultati imbarazzanti sulle parole chiave di ricerca utilizzate per arrivare qui.

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