giovedì 21 dicembre 2017

Wolf Children - Ame e Yuki i bambini lupo (2012) | Recensione

Wolf Children - Ame e Yuki i bambini lupo
Voto Imdb: 8,2
Titolo Originale:Ōkami Kodomo no Ame to Yuki
Anno:2012
Genere:Animazione / Drammatico / Fantastico
Nazione:Giappone
Regista:Mamoru Hosoda
Cast:Aoi Miyazaki, Takao Osawa, Haru Kuroki, Momoka Ono

Hana, Yuki e Ame
Dopo le recensioni di A Silent Voice - La forma della voce e della monografia su Makoto Shinkai, devo ammettere che ci sto provando gusto con l'animazione giapponese più recente. Tra i vari nomi di registi giapponesi attuali che, in un modo o nell'altro, possono essere considerati eredi di Hayao Miyazaki o quantomeno artefici di veri e propri film anime d'autore, era saltato fuori anche quello di Mamoru Hosoda. Classe 1967, inizia la carriera come animatore, diventando presto supervisore dell'animazione ed esordendo come regista di film cinematografici nel 2000 con Digimon, il film (2000), che in realtà è la fusione occidentale di tre mediometraggi giapponesi targati TOEI, due dei quali firmati proprio da Hosoda (Digimon AdventureDigimon Adventure: Our War Game). Il successo del film gli spiana la strada di regista a tutto tondo: dopo una non felice parentesi proprio allo Studio Ghibli durante la quale è chiamato a dirigere il Castello Errante di Howl che però lui abbandona per divergenze con la produzione e lo staff "anziano" dello studio, torna in TOEI per dirigere One Piece: L'isola segreta del barone Omatsuri (2005), il sesto lungometraggio della serie. Lasciata nuovamente la TOEI, Hosoda approda in Madhouse, uno degli studi d'animazione giapponesi più famosi extra-Ghibli: il riuscitissimo film La ragazza che saltava nel tempo (2006) è quello che lo consacra come regista di successo; arrivano poi Summer Wars (2009), acclamato da critica e pubblico, Wolf Children (2012) e The Boy and the Beast (2015). Gli ultimi due lungometraggi si sono rivelati veri e proprio successi al botteghino, proiettando Hosoda nell'olimpo dei registi più richiesti e seguiti. Con questa recensione parleremo di Wolf Children - Ame e Yuki i bambini lupo, quello che tuttora è considerato il suoi miglior film. Sarà vero? Sarà falso? Scopriamolo insieme (immaginatevi un tono alla Piero Angela).
Hana e il futuro marito
La storia inizia con una voce fuori campo, quella di Yuki, che racconta le vicende di sua madre Hana, la vera protagonista indiscussa del film. Siamo a Tokyo: la studentessa universitaria Hana osserva sempre più spesso uno strano ragazzo che segue il suo stesso corso. La colpisce il suo essere diverso dagli altri: gentile con tutti, ma solitario e taciturno, probabilmente dotato di grande forza interiore. La ragazza inizia a parlargli e a conoscerlo meglio. È ovvio e scontato come andrà a finire: i due si innamorano ed iniziano a frequentarsi, fino a quando non arriva il fatidico momento che lui tanto temeva: la rivelazione del suo terribile segreto. Il ragazzo, infatti, è l'ultimo uomo lupo sopravvissuto nell'era moderna. Un licantropo. Ma Hana non è una tipa che si perde d'animo. Accetta il ragazzo così com'è, senza rifiutarlo ma, anzi, accogliendolo tra le sue braccia. I due iniziano così la loro vita insieme e presto Hana rimane incinta: non sapendo cosa potrebbe uscire dal grembo (dubbio legittimo, no?) prende l'ardua decisione di partorire da sola, in casa. La nascita della bambina Yuki riempie di gioia e felicità i due novelli genitori che, un anno dopo, sfornano il fratellino Ame. I problemi, quelli grossi, iniziano quando il tanto amato uomo lupo, durante uno dei suoi giri in cui è alla ricerca atavica di cibo per i propri cuccioli, viene ucciso per errore, lasciando così una vedova sola e disperata e due orfani difficili da crescere. Eh, sì, perché presto i bambini riveleranno la loro duplice natura di bimbi e lupi, trasformandosi continuamente nell'una o nell'altra forma. Per Hana diventa sempre più dura vivere in una metropoli come Tokyo con la necessità di celare ai vicini e ai servizi sociali la vera natura dei suoi figli. Quando viene brutalmente sfrattata di casa con l'accusa di ospitare dei cani, vietati dal regolamento condominiale, Hana prende una drastica decisione: abbandonare la città e trasferirsi nella montagna più sperduta, dover poter crescere i figli con più tranquillità. La vita non è per nulla facile: deve ristrutturare da sola una catapecchia, deve iniziare a produrre cibo da sé non avendo un reddito fisso, deve continuamente tenere d'occhio i bimbi-cuccioli affinché non facciano troppi danni; Yuki, la sorella maggiore, è esuberante, piena di energia, curiosa come non mai, e sempre pronta a cacciarsi nei guai con il grosso rischio di trasformarsi in lupacchiotta nei momenti meno opportuni; il fratellino Ame invece è timido, taciturno, riservato, indeciso su come accettare veramente se stesso. Presto Hana trova la sua dimensione nel paesino, grazie alla benevolenza della comunità, i cui abitanti sono abituati ad aiutarsi reciprocamente nelle avversità; ma è proprio la comunità a dare altri interrogativi su Yuki e Ame: prima o poi i ragazzini, cresciuti, dovranno andare a scuola, e lì chissà quali altri guai potranno arrivare?
L'uomo in versione lupo
Vi ho raccontato in dettaglio giusto i primi quindici/venti minuti: non è necessario andare oltre, lascio a chi è davvero incuriosito il piacere di scoprire come la storia si evolve e cosa succederà a Hana, Yuki ed Ame. Per quanto mi riguarda, devo ammettere che il film ha colpito davvero nel segno. Dopo i primi cinque minuti, mortalmente lenti al punto da farmi temere di guardare un pippone clamoroso, la storia si fa interessante, briosa, drammatica, avvincente senza soluzione di continuità fino ad arrivare ad una fine che, forse arriva pur fin troppo improvvisamente. Wolf Children è un'opera molto strana, ma mai noiosa e mai sopra le righe. Hosoda riesce a mantenere un tono leggero, quasi da commedia, scendendo nel dramma e nella tensione nei momenti giusti e senza mai esagerare. Ad aiutare ci sono gli splendidi disegni dei fondali e la struggente colonna sonora. Un valore aggiunto è il character design di Yoshiyuki Sadamoto, che gli appassionati di anime conoscono sicuramente grazie alla sua collaborazione con lo studio Gainax: suoi i disegni dei personaggi per lo splendido lungometraggio Le Ali di Honneamise (1987) e le serie Il Mistero della Pietra Azzurra (1990) e Neon Genesis Evangelion (1993), dopo i quali inizia il suo sodalizio con Hosoda, per il quale firma il character design di tutti i suoi già citati lungometraggi. Il suo tratto spigoloso anni '90 si è evoluto con volti più morbidi e relativamente semplici da disegnare, garantendo però in questo modo una altissima qualità dell'animazione dei personaggi, tanto che più volte mi ha dato l'impressione di aver adottato la tecnica del rotoscope (riprese di attori reali su cui è stata sovraimpressa l'animazione disegnata dei personaggi). Molto più semplicemente, si deve essere trattato del ricorso di animazione in CGI, usata grandiosamente in molte scene ariose dove è la natura (boschi, montagne, fiumi) a diventare una memorabile co-protagonista. 
Yuki inizia a far danni
Wolf Children non è una storia di super-eroi, anche se viene toccato un tema fantasy; è invece una assurdamente realistica rappresentazione della vita di tutti i giorni di Hana, che deve fronteggiare ogni tipo di problematica, grande e piccola, data da infiniti dilemmi quotidiani. È la storia del coraggio di una madre e di come due bambini crescono fino a riuscire, in un modo o nell'altro, a trovare un loro posto nel mondo. Sta a Yuki e ad Ame scegliere la propria dimensione, se privilegiare il proprio lato umano o quello più selvatico di lupo. Hana, più semplicemente a dirsi che a farsi, è stata quella che ha permesso loro di trovare una risposta, nel modo migliore possibile - non in assoluto, ma al meglio delle proprie capacità. Non c'è complimento migliore che si possa fare ad una mamma, e Hana è una delle eroine normali migliori che mi sia capitato di vedere in un lungometraggio d'animazione.
Splendida regia e splendidi fondali
I complimenti, indubbiamente, vanno tutti proprio a Mamoru Hosoda che ha firmato non solo la regia, ma anche il soggetto e la sceneggiatura. La sua più grande abilità è stata quella di raccontare una storia solo apparentemente semplice, riempiendola però di molti significati e simbolismi. In Wolf Children, per esempio, i nomi hanno un significato ben preciso e sono associati al momento in cui i personaggi sono nati: Hana, che significa "fiore", fu chiamata così perché quando lei nacque suo padre rimase colpito dalla fioritura delle cosmee presenti nel suo giardino e sperava che la vita della figlia sarebbe stata colma di felicità nonostante le difficoltà della vita (per questo la ragazza madre sorride sempre); Yuki ("neve") nacque durante una nevicata mentre Ame ("pioggia") durante un temporale; senza dare troppi spoiler, è sempre durante un temporale violento che Ame decide di fare la sua scelta e di percorrere il suo nuovo cammino. Questa scena è, tra l'altro, la dimostrazione di come Hosoda non abbia lasciato nulla al caso: l'autore aveva le idee chiare fin dall'inizio e si è dimostrato coerente per tutta la durata della storia. Un altro semplice ma efficace esempio è proprio verso l'inizio, quando Hana si è appena trasferita in montagna e, in un momento di calma, osserva i due figli e parlando più a se stessa che a loro, chiede ad entrambi se un giorno decideranno di diventare umani o lupi. Guardate attentamente come i bimbi reagiscono alla domanda della madre: non con le parole, ma con la postura o i movimenti. L'autore si è divertito a darci la risposta praticamente subito, anche se il percorso scelto da entrambi riserverà più di una sorpresa. Concludendo il discorso dei nomi, ho trovato curioso il fatto che l'uomo lupo è in realtà l'unico personaggio a non avere un nome; né Hana né la voce narrante Yuki ci rivelano come si chiamasse e, a dirla sinceramente, non è nemmeno fondamentale che noi ne veniamo a conoscenza. Non è importante l'averlo appreso, o meglio, lo è di più sapere che non ci è stato rivelato; di lui sappiamo solo che è l'ultimo della specie, mentre tutto il suo passato è ammantato di mistero e riserbo. 
La dura vita di campagna
Wolf Children non è, però, un film perfetto, purtroppo c'è qualche piccolo difetto che mi ha impedito di dargli un voto più alto. Se da un lato ho parlato di disegni semplici ed efficaci per ottenere una superiore qualità dell'animazione, d'altro canto non posso non notare come il tratto dei personaggi sullo sfondo appaiano davvero brutti e sgraziati; tolti i personaggi principali, tolto il vecchio contadino burbero che aiuta Hana, gli altri peccano di scarsa personalità e carisma, diventando semplici elementi di sfondo. Questo è un aspetto che, per esempio, nei film dello Studio Ghibli non avviene perché ogni singola scena e ogni singolo movimento vengono studiati in modo veramente maniacale. Il secondo difetto di Wolf Children è il finale. Non tanto per quello che succede (a me è piaciuto davvero tanto e l'ho trovato perfettamente coerente con tutti gli elementi che l'autore ci ha presentato durante lo svolgimento del film), quanto per come ci si arriva. Si ha purtroppo l'idea che la fine sia arrivata in modo troppo repentino ed improvviso, in aperto contrasto con la struttura narrativa dilatata, quasi lenta, adottata fino alla sequenza finale. Avrei certamente preferito un maggiore bilanciamento dei tempi narrativi ed un maggiore approfondimento delle dinamiche che hanno portato a quello che Hosoda ci ha mostrato su video. Va però anche detto che è stata senz'altro una scelta precisa e fortemente voluta, perché il regista eccelle proprio nel "far intuire senza realmente mostrare".
Il vecchio brontolone
Ho tenuto per ultima una considerazione sulla versione italiana: finalmente un adattamento ed un doppiaggio che rendono giustizia al valore dell'opera. L'edizione, ad opera della Dynit, è davvero di pregevole fattura e la qualità di voci e recitazione si mantiene su livelli ottimi. Altro aspetto non da poco, l'adattamento italiano segue la versione originale giapponese (come è giusto che sia) e non quella americana, che presenta molte linee di parlato in più che riempiono di inutili spiegoni e dettagli inventati i momenti di silenzio. Un solo piccolo appunto: talvolta la voce dei personaggi viene sovrastata troppo dalle musiche, col risultato che si perde parte di quello che viene detto. Niente di così grave, comunque.
Casa di Hana
In conclusione, Wolf Children è uno splendido lungometraggio d'animazione, poco convenzionale nonostante la storia semplice, che merita senza ombra di dubbio di essere visto. Ha una bellissima qualità audiovisiva, arricchita da carrellate e sequenze registiche d'effetto (molte parti non vengono nemmeno narrate: le scene si susseguono semplicemente accompagnate dalla musica, perché non c'è bisogno d'altro per capire quello che ci viene raccontato). È la storia di un personaggio eccezionale nella sua normalità, è anche una storia di crescita e di come sia possibile arrivare a trovare un proprio posto nel mondo e nella società. C'è chi vede un parallelo di chi vive da mezzosangue, metà giapponese e metà occidentale, che non sempre viene visto di buon occhio nella rigida struttura sociale giapponese. Lo lascio come spunto, può essere una interessante ed alternativa chiave di lettura dell'intero film. In definitiva, uno dei migliori prodotti recenti che meritano di essere scoperti anche in Italia, grazie all'ottima edizione della Dynit e che è, tra l'altro, presente del catalogo di Amazon Prime Video (chiunque sia cliente Prime lo può vedere in streaming gratuito e legale).
Guardatelo e non ve ne pentirete.

Altro esempio di fondale


Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 7
La storia è apparentemente semplice, ma è ben strutturata, coerente, interessante. Si perde leggermente con un finale per me troppo frettoloso.
Musiche: 7
Ottima colonna sonora, di qualità così come spesso ci hanno abituato le produzioni più recenti.
Regia: 8
Ottimo sia visivamente che registicamente, con tante belle chicche e sequenze ben studiate. Promosso su tutta la linea.
Ritmo: 6
I primi cinque minuti mi hanno fatto pensare al peggio, per fortuna la storia acquista un suo ritmo, pur risultando lenta nel suo incedere.
Violenza: 4
Poca roba.
Humour: 6,5
Ci sono diverse scene leggere e buffe, soprattutto quelle in cui i bimbi lupi fanno disastri.
XXX: 3
Poco da segnalare.
Voto Globale: 8
Un gran bel film da scoprire, apparentemente semplice ma in realtà profondo ed emozionante, con tre personaggi da ricordare a lungo, Hana su tutti. Delicato, poetico, leggero e drammatico: raramente si arriva ad un equilibrio simile!

venerdì 15 dicembre 2017

Descendants of the Sun (Drama, 2016) | Recensione

Descendants of the Sun
Voto Imdb: 8,6
Titolo Originale:Tae-yang-ui hu-ye
Anno:2016
Genere:Drammatico / Sentimentale / Commedia / Azione
Nazione:Corea del Sud
Regista:Lee Eung-bok, Baek Sang-hoon
Cast:Song Joong-ki, Song Hye-kyo, Jin Goo, Kim Ji-won

Una delle scene topiche di Descendants of the Sun,
immagine che non a caso compare ovunque, locandina inclusa.
E alla fine, il Giampy si è cimentato in qualcosa di totalmente diverso dalle sue solite visioni.

Un drama.
Coreano.
Romantico.
Strappalacrime.

E sapete qual è la cosa più inquietante di tutte? Se lo è pure sciroppato in pochi giorni, sottoponendosi ad estenuanti maratone davanti allo schermo.

No, cazzo, non va bene, non va bene per nulla.

Partiamo dall'inizio. Rullo di tamburi!
Prima di tutto, rispondiamo a tre domande introduttive.
1) Cos'è un drama?
2) Perché proprio Descendants of the Sun?
3) Cosa si intende per coreanata?

La prima risposta è molto semplice: in parole povere, è il corrispondente asiatico dei telefilm così come li conosciamo noi. In questa sede si parla principalmente di dorama, termine giapponese abbreviato dall'inglese Television Drama che indica il sottogenere di fiction televisive, discretamente standardizzate nella formula, dove a cambiare può essere il genere (commedia scolastica, storico in costume, horror, fantascienza, poliziesco, thriller, etc.), la storia, la presenza o meno di una o più sottotrame romantiche, l'ambientazione. Scendendo ancora più nello specifico, in questa recensione sto parlando di un k-drama, parola che indica un drama di origine coreana (del sud), simile nella concezione al j-drama giapponese, che solitamente si differenzia per un budget più elevato e una vicinanza sempre più pericolosa al concetto di soap opera. Una buona fetta del target è infatti femminile, non è un caso che vengano presi a manate ragazzi e fighetti di gruppi k-pop (corrispettivo coreano del j-pop, a sua volta definibile come genere pop giapponese di gruppi di bellocci e bellocce in stile One Direction, tanto per capirci). Altro aspetto peculiare è il fatto che le riprese vengono fatte quando la serie è già in onda, per permettere alla produzione un eventuale cambio di rotta di trama e personaggi a seconda della risposta e delle preferenze del pubblico. 
Ed eccoci quindi a rispondere alla seconda domanda. In realtà i motivi sono due. Descendants of the Sun è stato il k-drama di maggior successo del 2016, forse anche degli ultimi anni, capace di superare i confini nazionali e di far parlare di sé anche in America e nel resto dell'Asia, specialmente in Cina dove è stato trasmesso in contemporanea con la Corea. Il suo successo non è stato solo di critica e di spettatori: il drama è stato una possente macchina da soldi (si parla di proventi totali, diretti ed indiretti, di oltre 880 milioni di dollari!). Tutti i prodotti reclamizzati al suo interno - lucidalabbra, auto (casualmente tutte Hyundai), vestiti, locali di tendenza - hanno avuto un incremento di vendite enorme proprio grazie al serial. Il secondo motivo è questo:


Devo confessarvi una cosa: complice La Moglie, in realtà non sono nuovo al mondo dei drama, sia giapponesi che coreani. Già in passato me ne ero sciroppato diversi, gradendoli moderatamente quasi tutti. Restando nell'ambito coreano, me ne ricordo giusto due: My Lovely Sam-soon (Nae ireum-eun Kim Sam-soon, 2005) e Full House (id., 2004). Di entrambi ho un bel ricordo, ovviamente offuscato dal fatto che sono passati diversi anni dalla loro visione. Proprio del secondo nominato, l'attrice principale è proprio lei, Song Hye-kyo, la donna delle immagini di prima nonché co-protagonista di Descendants of the Sun. Sembra quasi uno scherzo del destino, eppure è così!
Infine, in quel periodo ho iniziato a seguire anche film coreani - non solo drama, quindi - ed insieme a La Moglie abbiamo coniato un termine: "coreanata". C'è una storia che parte allegra, divertente e spensierata? Verso la fine arriva un male incurabile che si porta via il o la protagonista. Più in generale, con "attenzione alla coreanata!" intendiamo scherzosament un improvviso cambio di registro, che solitamente inizia brioso e frizzante, e che termina impietosamente in una valle di lacrime. A quanto pare, ai coreani - più di altri, giapponesi e cinesi di Hong Kong inclusi - piace mischiare nella stessa storia commedia e dramma, rendendo più difficile tracciare con certezza il solco che separa una storia divertente da una drammatica. Ve lo dico per esperienza: se un film o un drama coreani vi vengono spacciati per "commedia", non fidatevi, la coreanata è sempre dietro l'angolo. Ora che inizio col parlare di Descendants of the Sun, vi metto subito in guardia: è una commedia, è un polpettone romantico, ha qualche (ovvia nonché telefonata) coreanata. Non ditemi che non vi ho avvisato.
Un'altra nota prima di partire, che avrei dovuto scrivere qualche riga prima: i nomi coreani sono per me terribilmente ostici, non riesco a memorizzarne mezzo (al contrario di quelli giapponesi); sappiate che seguirò il loro uso, scrivendoli nel loro ordine: sembrano tre nomi ma il primo è sempre il cognome (o nome di famiglia) e gli altri due sono il nome. E vai di copia & incolla a manetta.

Descendants of the Sun - Trama
Song Joong-ki nella parte di Yoo Si-jin
Campo militare sul confine con la Corea del Nord. La Squadra Alfa, un'unità speciale delle forze armate sudcoreane, è impegnata nel recupero di alcuni ostaggi finiti nelle mani di un gruppo di militari nordcoreani. All'interno di una catapecchia sperduta in mezzo al nulla, avviene la risoluzione: il Capitano Yoo Si-jin (Song Joong-ki) ingaggia un duello serratissimo con il comandante nordcoreano Ahn Jung Joon (Ji Seung-hyun), mentre intorno a loro i subalterni fanno lo stesso, tra cui il Sergente Seo Dae-young (Jin Goo), amico fraterno dello stesso Yoo Si-jin. Lo scontro è spettacolare, volano schiaffi, coltellate, colpi di pistola: il risultato è incerto fino alla fine quando, pur subendo una brutta ferita, con scatto felino ed abile mossa Si-jin riesce ad immobilizzare l'avversario, che si arrende: tra i due nasce un tacito nonché reciproco rispetto, quello che si dà ad un antagonista leale e corretto. Gli ostaggi vengono liberati e al comandante Ahn viene concesso di tornare in Nord Corea.
Il loro primo incontro.
Va' come fa il gradasso, lui...
Stacco di scena, vediamo Si-jin e Dae-young passeggiare per le vie di Seoul, per godersi qualche giorno di riposo dopo l'operazione. All'improvviso un ladruncolo da strapazzo ruba loro un cellulare e il duo lo insegue per riprendersi il maltolto; fatalità vuole che il ragazzo s'infortuni cadendo dal motorino e viene scortato in ospedale dai due militari, che non vogliono perderlo di vista. A prestare le prime cure è la dottoressa Kang Mo-yeon (Song Hye-kyo), che lavora come chirurgo nell'ospedale Haesung. Per Si-jin è un vero e proprio colpo di fulmine: invaghitosi della dottoressa, inizia a provarci sfoderando tutte le sue armi da battaglia: charme, battute di spirito, faccine sorridenti, galanteria... sempre mantenendo un alone di mistero sul suo lavoro, perché protetto dal segreto di Stato. Altrettanto ovviamente, Mo-yeon rimane colpita dal ragazzo ed accetta di uscire con lui. I due cominceranno a conoscersi meglio, a comprendersi... a piacersi. Purtroppo, però, i loro appuntamenti sono sempre interrotti dalle chiamate improvvise della Squadra Alfa, che obbligano Si-jin a sparire e a lasciare sola Mo-yeon. Quando lei apprende che lui è un soldato, i dubbi la assalgono tormentandola: lei sa benissimo di aver prestato il Giuramento di Ippocrate, la sua missione è quella di salvare le vite delle persone, chiunque esse siano, a prescindere da sesso, razza e religione... quelle che un soldato è obbligato ad uccidere dietro un ordine, anche se magari lo fa "solo" per difendere la Patria. All'ennesima sparizione di Si-jin, Mo-yeon decide di troncare la relazione che stava per nascere: troppi dubbi, troppe verità omesse, troppa... incompatibilità con il suo modo di pensare. A malincuore, Si-jin accetta la decisione della donna e parte per una lunga missione in terra straniera, Urk, immaginario stato balcanico dove ancora oggi c'è la guerra (qualcuno lo paragona all'Iraq, ma più volte i personaggi lo posizionano vicino alla Grecia, dove peraltro sono state realmente effettuate le riprese). 
Otto mesi dopo, la carriera di Mo-yeon prende una svolta improvvisa: il direttore dell'ospedale la invita del suo ufficio, la molesta goffamente e rimedia un sonoro rifiuto accompagnato da un altrettanto sonoro ceffone. Questa reazione comporta grossi guai: il direttore se la lega al dito e alla prima occasione si libera della dottoressa. Casualmente, su Urk diventa necessario mandare aiuti umanitari dalla Corea e creare una struttura medica partendo da zero. Chi viene mandata come responsabile? Ovviamente Mo-yeon, che si trova catapultata dall'altra parte del mondo da un giorno all'altro. Chiaramente, non appena arriva nell'inospitale aeroporto di Urk, trova ad aspettarla proprio Si-jin. 
Il campo di Urk dove si svolge gran parte della storia.
Da questo momento inizia un lungo arco narrativo che occuperà buona parte dell'intero drama (almeno 12 episodi su 16), dove assisteremo a molte storie che si intrecciano fra di loro, la più importante delle quali riguarda il tormentato rapporto tra il Sergente Seo Dae-young (l'amico di Si-jin, lo ricordo - i nomi coreani sono un casino, ve l'avevo detto?), innamorato ricambiato del Primo luogotenente Yoon Myeong-joo (Kim Ji-won), che ha il piccolissimo problema di essere la figlia del generale superiore di Si-jin e Dae-young: l'ostacolo più grande diventa quello di farsi accettare dal padre di lei e Dae-young, ligio al dovere fino al parossismo, non riesce a vedere una via di uscita dalla situazione in cui si sono cacciati. Vedremo poi nascere e crescere la clinica diretta da Mo-yeon, impareremo a conoscere gli altri dottori membri dell'equipe, assisteremo alla comparsa di alcuni personaggi cattivi, viscidi e squallidi, e comparteciperemo ad eventi straordinari e toccanti che metteranno a dura prova la tenacia e le capacità di tutti i protagonisti (un terribile terremoto, la conseguente epidemia, la guerra, attacchi terroristici). Insomma, di carne al fuoco ce n'è tanta - forse troppa - e gran parte di essa sarà vissuta dagli occhi di Si-jin e Mo-yeon. Sappiate che non mancheranno occasioni per infilarci delle coreanate belle e buone.

Mexican stand-off: la prima grossa crisi da risolvere a Urk.
Descendants of the Sun - Commento (no spoiler)
Sortilegio (cuoricino)
Sono costretto ad ammetterlo quasi a malincuore: sono rimasto vittima del malefico incantesimo di questo drama. Mi ha preso fin dall'inizio e me lo sono gustato quasi senza fiatare fino all'epilogo. Il tutto chiudendo un occhio, a volte entrambi, di fronte ai suoi macroscopici difetti, che non ho però trovato così mortali da farmi smettere di guardarlo. Posso sembrare incoerente rispetto ad altre recensioni in cui vi ho raccontato di quanto spesso alcuni evidenti difetti mi abbiano reso indigesta la visione, ma onestamente devo dirvi che tutte le riflessioni e le critiche sono iniziate quando ormai avevo già finito la visione. Mentre guardavo gli episodi, avevo solo un pensiero fisso: quello di sapere come sarebbe andata a finire la storia. La trama non riserva grosse sorprese, anzi direi che è abbastanza telefonata, ma con una produzione coreana, porco cazzo, devi (l'imperativo è d'obbligo) aspettarti la solenne e bastarda coreanata dietro l'angolo. Per questo motivo sono rimasto in guardia con le antenne drizzate fino alla fine: "sempre all'erta, Sugar!" L'incantesimo, tra l'altro, non è solo dato dal perverso meccanismo da soap opera che comporta un cliffhanger alla fine di ogni due episodi circa, con l'intento di aprire mini archi narrativi che seguono il collaudato schema: pericolo-azione-risoluzione-avanzamento del rapporto dei protagonisti-nuovo pericolo e così via, ma anche se non soprattutto dagli sguardi di Song Hye-kyo. Non posso dilungarmi troppo su questo aspetto perché ne va della mia incolumità psico-fisica causa La Moglie, ma qualcosa voglio dirla lo stesso. Mo-yeon (e quindi l'attrice, classe 1981) è ultratrentenne e non fa niente per nascondere la sua età; a pensarci bene, è un aspetto decisamente in contrasto con molti drama dove ad essere protagoniste sono ragazze ventenni o poco più, che fanno leva sulla propria avvenenza e gioventù. Song Hye-kyo ha dalla sua un volto ordinario, certo, dai tratti delicati (enfatizzati dal trucco e dalla frangetta sbarazzina), a cui si aggiunge un innato senso dello stile (merito dei costumisti, sicuro). Il risultato è quello di una donna di classe, per nulla volgare, diventata una vera e propria icona di stile per eleganza. L'attrice ha poi aggiunto al personaggio un insieme di fragilità e risolutezza, il cui mix è risultato ai miei occhi terribilmente efficace. Per onestà intellettuale devo dire due cose: 1) Per molti, La Moglie inclusa, l'attrice risulta antipatichina e non sempre nella parte 2) Il pubblico di questo drama in particolare è prevalentemente femminile, e gli occhi sono tutti puntati prima sull'attore Song Joong-ki, poi sui soldati coreani che si allenano (infatti c'è qualche scena ironica di puro fan service indirizzato alle ragazze). A causa di questi due aspetti ritengo il giudizio su Hye-kyo poco equilibrato come, d'altronde, lo è il mio da un punto di vista diametralmente opposto. Non è un caso se i due registi abbiano preferito abbondare (non è un eufemismo) con i primissimi piani dell'attrice, sia nei momenti allegri che, soprattutto, in quelli drammatici dove si deve sforzare a far rotolare qualche lacrima.

Intensità, perdinci!
Al di là di tutta questa pappardella che prova un po' a spiegare l'effetto che mi ha fatto il serial, devo aggiungere qualche altra considerazione. La prima è che Descendants si è rivelato un prodotto leggermente diverso da altri drama simili: la qualità audiovisiva a mio avviso è assolutamente superiore. L'immagine non è smarmellata né traballante (se non nelle scene di guerra, effetto voluto), le inquadrature hanno un taglio più cinematografico che televisivo, infatti le sequenze meglio riuscite danno più l'idea di guardare un film che uno sceneggiato. Molte transizioni di scene sono curatissime e ben studiate, parlo proprio di carrellate e stacchi di scena. La colonna sonora è molto curata e intervalla pezzi orchestrati ad altri ricchi di k-pop semplice, martellante ma terribilmente orecchiabile. Le tre o quattro canzoni principali vi rimbomberanno in testa per tanto tempo, anche a causa dell'elevato numero di volte in cui vengono propinate in sedici episodi. Ci sono, come detto, alcune sequenze che superano le altre per distacco in termini di resa e pathos: quella del terremoto e di come si svolgono le successive operazioni di salvataggio, quella della prima crisi diplomatica arabo-coreana (non dico altro per spoilerare), o la resa dei conti con uno dei cattivi, il comandante Argus.
Si-jin e Dae-young
La fortuna di questo serial è data anche da tutti gli altri personaggi comprimari. Come storia romantica è addirittura forse più interessante quella di Dae-young e Myeon-joo, ma altrettanto forti sono i medici colleghi di Mo-yeon, sui quali si appoggiano i momenti di ilarità e di distensione. L'intera storia è permeata da una sottile vena di commedia, che viene lasciata da parte nei momenti più drammatici, ma che non manca mai fino alla fine. Occhio però che la comicità è quella orientale, difficilmente a noi occidentali farà strappare sonore risate anche se alcune scene sono ben riuscite nonostante tutto. Un altro aspetto a cui ci si deve abituare il prima possibile se è la prima volta che si segue un drama orientale, è la recitazione. Dimenticatevi i telefilm americani, serrati e mediamente ben recitati o, meglio, più vicini a quello che solitamente vediamo nei film. Qui è più facile incappare in espressioni da macchietta, più vicine a Un posto al sole o Don Matteo, non so se rendo l'idea. Semplicemente, abituatevi e passate oltre.
Lee Chi-hoon (Onew). Per pietà.
Un esempio è un personaggio secondario ma ricorrente, il medico bamboccio Lee Chi-hoon: è infatti interpretato da Onew, il cantante dei SHINee, una band k-pop ovviamente famosa in patria. Beh, all'inizio è davvero disastroso come attore, ad incutere pietà non è il personaggio ma proprio lui nella sua interpretazione. Poi, per sua fortuna, nel tempo migliora leggermente fino a portare il lavoro a casa, ma resteranno sempre impresse nella memoria i suoi pianti esageratamente finti ed irritanti, di una pochezza veramente unica.
Proseguendo con i difetti, non posso non rimarcare un eccessivo ricorrere al tema del patriottismo (militare) e del senso del dovere dei soldati. Qualcuno poi parla di scarsa crescita dei personaggi principali, io non sono pienamente d'accordo (ma per spiegarmi meglio dovrò scrivere nell'apposita sezione Commenti con spoiler, più avanti), ma sono dell'idea che i principali difetti del serial siano invece i seguenti:
1) Si ha bisogno di una grossa... grossa... davvero grossa sospensione dell'incredulità in alcune scene, che risultano troppo forzate, pretestuose e ficcate solo per suscitare il groppo in gola. Ci sono inoltre degli sfondoni scientifici che anche un non laureato in medicina riesce a cogliere e ad inorridire a causa loro.
2) La trama non solo è lineare e priva di veri colpi di scena che facciano rimanere lo spettatore con la bocca spalancata, ma presenta anche dei buchi grossolani di sceneggiatura, in aggiunta a salti logici non da poco che inevitabilmente faranno storcere il naso. Ci si è spesso soffermati sulla facile presa emozionale, mettendo da parte scelte più razionali e funzionali. Peccato davvero, sarebbe bastato poco per raddrizzare il tiro.
Quello che resta al termine della visione è, in ogni modo, la cosa più importante. Quando ho finito la visione di Descendants of the Sun, inesorabilmente sono stato cullato da un malinconico senso di vuoto: succede solo quando qualcosa mi è piaciuto davvero e l'ho divorata troppo velocemente, diviso tra il voler viaggiare con i protagonisti e il bisogno quasi fisiologico di vederne la conclusione. Sì, mi sono mancati i paesaggi di Urk, le risate dei medici e dei soldati, gli sguardi di Hye-kyo e il sorriso beffardo di Joong-ki. Lo scopo di un drama simile è quello di emozionare: lasciatemelo dire, con me ci è riuscito in pieno, facendomi riscoprire più tenerone e romantico di quello che pensassi. Che sia un pregio o un peccato mortale, lascio a voi la scelta...

L'isola di Zante: ottima scelta come location.
Diverse scene si svolgeranno vicino al misterioso relitto di Zante.

Nota importante! Il prossimo paragrafo contiene un approfondimento sui personaggi e su alcune critiche: dal momento che saranno presenti numerosi spoiler (compreso il finale), leggetelo solo dopo la visione o se non avete intenzione di vedere il drama (in tal caso, mi domando che minchia ci facciate a questo punto della lettura perché di sproloqui ne ho scritti fin troppi!)

Descendants of the Sun - Commento (spoiler alert!)
Emotività.
Messa da parte l'emotività e fatto sì che un pizzico di razionalità entri in campo, non è possibile tacere dei difetti più evidenti del serial. E vorrei andare al di là di alcune problematiche tipiche del genere delle quali non si può fare a meno, ovvero la necessità di allungare la storia per riempire 16 episodi; questo comporta l'inserimento di nuovi personaggi, situazioni più assurde, finali multipli, l'abbandono di alcune microtrame a discapito di altre e così via. Il fatto che, contrariamente ad altri drama coreani più famosi, Descendants sia stato girato tutto prima della trasmissione, può essere visto sia positivamente che negativamente: se da una parte la storia è uscita esattamente così come la volevano l'ideatrice e sceneggiatrice Kim Eun-sook insieme al co-sceneggiatore Kim Won-seok senza le ingerenze dei fan, d'altra parte non è stato possibile fare eventuali correzioni che ne avrebbero potuto - forse - migliorare la qualità finale.
Dottoressa.
Tornando alle critiche più ricorrenti, vorrei soffermarmi su un aspetto: la presunta mancanza di crescita dei due personaggi principali. Secondo me non è un'affermazione del tutto corretta, soprattutto se riferita a Mo-yeon. Fra tutti, è proprio Si-jin quello che rimane granitico nelle sue convinzioni: era un soldato abile e affidabilissimo con un forte senso dell'onore già all'inizio e lo è anche alla fine; il suo modo di porsi verso Mo-yeon non cambia di una virgola, nemmeno quando lei lo respinge o lo scarica più volte non riuscendo ad accettare una vita piena di dubbi e con il terrore che, un giorno, potrebbe non rivedere più il ragazzo perché caduto in battaglia. Lui è sempre lì, pronto ad aiutarla o ad accettare la sua decisione, convinto che lei, prima o poi, lo accetterà. Intendiamoci: è un bel personaggio, ben definito fin dall'inizio, ma che non ha una vera e propria crescita. È carismatico, è figo, è un eroe, ma è anche un archetipo costruito apposta per piacere così com'è. Diversa è proprio Mo-yeon: è lei ad avere i dubbi, è lei che in definitiva deve prendere una decisione, che potrà maturare soltanto dopo un percorso in cui anche le avversità giocano un ruolo importante; senza trascurare il dover conciliare la professione di Si-jin con il suo credo di medico chirurgo. E, secondo me, la dottoressa non è nemmeno, almeno non del tutto, il solito personaggio femminile indifeso e bisognoso di essere tratto in salvo. Certo, c'è la scena topica contro il cattivo Argus che la tiene prigioniera e dovrà essere salvata da Si-jin, ma ricordiamoci sempre che lei è una dottoressa e lui un soldato. Più volte Mo-yeon ha dimostrato di essere forte, risoluta, in grado di prendere anche decisioni drammatiche (una delle scene per me più belle è quando deve decidere quale ferito dovrà salvare dopo il terremoto: la salvezza di uno comporterà la morte inevitabile dell'altro, per colpa di una grottesca situazione che li lega indissolubilmente l'uno all'altro). E, in definitiva, la decisione se iniziare una vera storia sentimentale con Si-jin spetta solo a lei, con lui in attesa passiva e speranzosa di un sì. Care le mie sciacquette che criticate tanto solo perché fan di Song Joong-ki: per una volta iniziate ad usare il cervello.
Myeon-joo e Mo-yeon (cacofoniaaa)
Gli altri problemi del drama si riconducono alla trama (beccatevi questa rima). Per quanto mi riguarda, se fosse finito alla puntata 12, esattamente al termine dell'arco narrativo di Urk, sarebbe stato comunque perfetto perché in quel momento gran parte dei nodi si sono già risolti e altri si sarebbero potuti sistemare in anticipo con qualche piccolo accorgimento. Per quanto gli ultimi quattro episodi presentino situazioni di altissima qualità, prima su tutte il ritorno del capitano nordcoreano Ahn (uno dei personaggi meglio riusciti in assoluto), non mi è piaciuto il voler far quasi morire Si-jin nella puntata 13 e il farlo morire nella puntata 15, la penultima, costruendoti il più banale dei colpi di scena nell'ultimo capitolo (toh, non è morto davvero, ma dai?!). Mi fai 13 puntate in cui è praticamente infallibile ed immortale, poi quasi schiatta per colpa dei traditori nordcoreani, dopo magicamente torna abile e combattivo per risolvere la crisi politica meglio di Jason Bourne o Ethan Hunt quando invece dovrebbe essere immobile sul letto dell'ospedale, e infine me lo fai morire in battaglia nuovamente dall'altra parte del mondo? Suvvia, questo è stato il classico mezzuccio da telenovela costruito apposta per far versare lacrime su lacrime a Mo-yeon e a Myeon-joo (sì, risulta morto pure l'amico Dae-young), far loro elaborare il lutto per un anno intero, per poi farli re-incontrare in Albania in una scena ai limiti dell'assurdo con tanto di annessa nevicata clamorosa su Urk, in confronto alla quale è più credibile vedere il sottoscritto sulla copertina di Vogue. Ecco, una trama tutto sommato discretamente costruita inciampa grandiosamente proprio nel finale; l'happy end c'era già stato due volte (quando Mo-yeon accetta definitivamente Si-jin e quando lui, in fin di vita, viene salvato proprio dalla dottoressa, scena che tutti, più o meno, si aspettavano), che bisogno c'era di allungare così la brodaglia? Fermo restando che se avessero piazzato la coreanata definitiva negando il lieto fine, avrei molto probabilmente scagliato il monitor fuori dalla finestra anche se sarebbe stato un colpo di scena più che memorabile.
Hye-kyo piazzata a caso qui.
Ultima grossa critica è l'aver creato dei personaggi interessanti ma che purtroppo non sono stati adeguatamente sviluppati: il dottore meccanico tuttofare Daniel Spencer è quello che mi viene in mente per primo. Misterioso, capace, pure discretamente figo, con un background che avrebbe potuto permettere di costruire una linea narrativa stuzzicante. Invece Daniel diventa un semplice e banale deus-ex-machina che deve risolvere alcune situazioni al momento giusto. Magari la storia ne averebbe beneficiato se ci si fosse soffermati meno su momenti esageratamente drammatici (l'epidemia, per esempio, che ho trovato abbastanza risibile) o su dialoghi inutilmente allungati, per poter dare più spazio al meccanico e a sua moglie di origini russe Ye-hwa.
Si può, infine, criticare l'eccessiva attenzione data all'aspetto para-militare dei personaggi, con una neanche tanto velata apologia dell'esercito coreano, rafforzando implicitamente un innato patriottismo dei cittadini coreani. Beh, se a me non dà fastidio Micheal Bay, che su questo punto martella niente male, figuriamoci se vado a storcere il naso in questa sede, su un aspetto che per me è molto marginale. Detto in parole povere: non me ne frega una beneamata cippa di niente.
Yoon Myeong-joo (Kim Ji-won)
Bene tutto il resto, invece! Il Sergente Dae-young (l'amico di Si-jin, lo ricordo più a me stesso che a voi... rido) è per esempio un punto focale della storia. Si può parlare anche di una sorta di bromance tra lui e l'amico superiore (non sono del tutto convinto di questo aspetto, ma ci può stare), quello che colpisce è la sua incredibile ottusità: parco di parole, fa fatica ad esternare i suoi sentimenti e si rifugia nel suo grandissimo senso dell'onore, tutto l'opposto di Myeon-joo, che non fa nulla per nascondere i suoi pensieri. Il contrasto funziona bene e rende interessante una storia che va avanti di pari passo a quella principale per tutta la durata del serial.
Riassumendo in poche parole, la vera forza di Descendants è data proprio dai personaggi e dalle loro interazioni; è l'abilità di aver creato un gruppo coeso insieme al quale vivere le grandi vicende di cui spesso sono spettatori insieme a noi, talvolta anche parte attiva. Funziona, funziona davvero pur con tutti gli inciampi di cui ho parlato poco prima.

Descendants of the Sun - Conclusioni
L'alchimia di SongSong
Qui in Italia difficilmente possiamo percepire l'importanza che questo drama ha avuto in Corea e in Asia, Cina soprattutto. Io stesso mi son dovuto documentare per capirci, come è ovvio che sia. Al di là dell'aspetto commerciale, che è stato quello più eclatante come già sottolineato, si può aggiungere qualcosa a livello sociale. La coppia SongSong, per esempio! Il nome fa volutamente sorridere, e fa riferimento al matrimonio reale - avvenuto il 31 ottobre 2017 - tra Song Hye-kyo e Song Joong-ki  (Mo-yeon e Sin-ji, repetita juvant). Innamoratisi sul set (la loro alchimia è evidente!), hanno mantenuto il rapporto segreto per fare poi l'annuncio a trasmissione terminata. Ora, dato che mi sono fatto prendere la mano, vi racconto pure un aneddoto buffo (eccovi l'Aneddoto Inutile del Giampy!) Il loro matrimonio è stato uno degli eventi mondani più chiacchierati dell'Asia; blindatissimo e iper segreto (i SongSong sono riservati, come biasimarli?), immaginate solo l'orda di droni sguinzagliati per tutta Seoul con lo scopo di scovarli e mandare in streaming  illegale l'evento. Ci è riuscita la società del marito dell'attrice Zhang Ziyi (famosa per La Tigre e il Dragone, e non solo), amica di Hye-kyo e invitata al matrimonio stesso, la quale si è poi dovuta prodigare in scuse per l'accaduto. Imbarazzo a profusione: solo in Corea succedono queste cose! (scherzo).

I SongSong esibiscono il costosissimo regalo di matrimonio del regista John Woo
(Song Hye-kyo è stata da lui diretta nel film The Crossing, 2014)

I SongSong annunciano il fidanzamento su Twitter
Facezie a parte, penso sia necessario spiegarvi come sono giunto al voto finale. Bisogna relativizzare - come faccio quasi sempre - e considerare che sto giudicando un prodotto diverso da un film per tanti motivi:
  • Serialità prolungata vs due ore di storia fatta e finita;
  • Recitazione orientale, diversa da quella a cui siamo abituati;
  • Concetto di drama, inteso qui nell'accezione più ristretta di soap opera;
  • Qualità visiva e budget solitamente inferiori rispetto ad un prodotto destinato al cinema;
  • Target specifico, qui indirizzato ad un pubblico prevalentemente femminile.
Ecco, alla base di tutte queste considerazioni, vi dico che Descendants of the Sun è un prodotto decisamente superiore alla media per distacco e, dato che riesce ottimamente nel suo intento più intimo, quello di emozionare, ecco spiegato come si arrivi ad un 8 secco che potrebbe essere visto come un voto esagerato rispetto allo stesso punteggio ottenuto da film indubbiamente superiori nella produzione, nella resa visiva, nel coinvolgimento personale. Un avvertimento fondamentale, però: se anche la sola idea di guardare una storia romantica vi fa venire l'orticaria, non esisterà niente al mondo che vi farà apprezzare questo drama, nemmeno tutti gli altri aspetti indubbiamente positivi presenti.


Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 6
Il voto è una media di tanti aspetti: ottima caratterizzazione dei personaggi, credibile lo svolgimento, pessimi momenti illogici e ricorso eccessivo dei soliti facili mezzucci strappalacrime, tipici del genere.
Musiche:
8
K-pop a profusione, di quello facile ed orecchiabile, piazzato strategicamente in modo da riempire ogni sequenza con lo scopo di rimanere in testa. Funziona, non posso negarlo.
Regia: 8
La regia è forse uno degli aspetti più convincenti del drama. Le riprese sono sempre chiare, gli effetti ben fatti (tenendo conto del budget), le sequenze studiate in modo ottimale e con molte chicche di qualità. I registi hanno fatto un ottimo lavoro, tanto da rendere il serial visivamente simile ad un film in più di un momento.
Ritmo: 6
Come è normale che sia, il ritmo è troppo altalenante. Ottime le fasi in cui c'è bisogno di tensione, due o tre belle scene concitate e tanti - forse troppi - dialoghi inutili a rallentare la narrazione. Anche questo è un difetto tipico del genere.
Violenza: 6
Sembrerà strana questa votazione, ma talvolta sembra di vedere una puntata di E.R. con sangue che zampilla allegramente, sequenze in sala operatoria e brutte ferite esibite gagliardamente. 
Humour: 6,5
Tutta la storia è attraversata da un sottile velo di commedia. Essendo però umorismo orientale, non sempre sarà in grado di farci ridere.
XXX: 0
Suvvia.
Voto Globale: 8
Descendants of the Sun, l'avrò già detto quattro o cinque volte, emoziona. Quello è il suo scopo, quello ha ottenuto. Vi rimando all'ultimo paragrafo del commento finale per le dovute spiegazioni a questo 8.


Neurone Numero 4 a rapporto! Song Hye-kyo
(come sempre, click per ingrandire)















domenica 10 dicembre 2017

Valerian e la città dei mille pianeti (2017) | Microrecensione

Valerian e la città dei mille pianeti
Voto Imdb: 6,6
Titolo Originale:Valérian et la Cité des mille planètes
Anno:2017
Genere:Fantascienza / Avventura / Azione
Nazione:Francia
Regista:Luc Besson
Cast:Dane DeHaan, Cara Delevingne, Clive Owen, Rihanna, Ethan Hawke.

Dane DeHaan, Clive Owen, Cara Delevingne

Notare il dettaglio della scenografia: ottimo!
Ah, la space opera! Uno dei miei generi preferiti in assoluto... oggigiorno se ne vede sempre meno ma, grazie ad alcuni filmoni recenti (chi ha detto Guardiani della Galassia?), qualcosina ancora salta fuori. La difficoltà di trovare un buon film di questo filone, va detto, è a causa di due livelli di problematiche: costi, innanzitutto, perché per rendere plausibile un'epopea spaziale c'è bisogno di un budget fra i più elevati per garantire grandiosi effetti speciali, make up e scenografie... tutto deve essere pompato sfruttando le tecnologie più moderne; in secondo luogo, idee. Purtroppo il racconto nello spazio rende più difficile trovare un soggetto originale che non sappia di "già visto o già detto". Prendiamo Valerian e la città dei mille pianeti, per esempio: nel dirigere questo film, il regista e produttore Luc Besson è andato a pescare dal cilindro dei suoi ricordi di ragazzino un fumetto del 1967 (concluso nel 2010), Valérian e Laureline agenti spazio-temporaliscritto da Pierre Christin e illustrato da Jean-Claude Mézières. Niente di nuovo, quindi, ma pur sempre uno dei principali ispiratori di Star Wars e di Besson stesso quando diresse Il Quinto Elemento (1997). Per il discorso del budget, direi che ci siamo: Valerian è una delle produzioni indipendenti (extra Hollywood) più costose di sempre ma, a causa dell'enorme spesa sostenuta e dell'elevata aspettativa, si è tramutato in uno dei flop commerciali più cocenti degli ultimi anni, non riuscendo nemmeno a raggiungere il punto di pareggio. Gli americani, probabilmente, non perdonano gli europei quando questi ultimi provano a scontrarsi sul loro stesso terreno, e ne hanno decretato il fallimento prima ancora che il film di Besson esordisse nelle sale: la bocciatura statunitense ha probabilmente creato un effetto domino che ha fatto sì che al cinema ci andasse meno gente di quanta i produttori si aspettassero. Guardate però i voti dei fan su imdb: la media forse non è lusinghiera, ma è ben lontana dalla solenne bocciatura dei botteghini.
E, mi duole ammetterlo, mia.
Sì, stavolta faccio io la voce fuori dal coro e vi dico che l'ultimo lavoro di Besson non mi è minimamente piaciuto, provocandomi vette di fastidio che non provavo da tempo immemore nel guardare un film con pretese così elevate.
Valerian e Laureline
Siamo nel 28esimo secolo. La vecchia ISS (L'International Space Station, la Stazione Spaziale Internazionale) in 800 anni è diventata sempre più grande fino a raggiungere la massa critica: non potendo più orbitare intorno alla Terra, viene trasformata nell'enorme colonia spaziale Alpha,  popolata da 17 milioni di abitanti di tutte le razze, alieni inclusi, con lo scopo di scoprire nuove galassie. Valerian (Dane DeHaan) e Laureline (Cara Delevingne) sono due agenti speciali con l'incarico di preservare l'ordine e la pace nelle galassie. Il duo riceve dal loro capo (Clive Owen) un incarico proprio su Alpha: una minaccia sconosciuta e oscura potrebbe mettere a repentaglio l'intera città-astronave, e spetta proprio ai due protagonisti l'ingrato compito di sbrogliare la matassa, districandosi tra alieni mutaforma con le gnocche sembianze di Rihanna, personaggi cattivi, altri personaggi buoni che in realtà sono cattivi, animali alieni bizzarri che cagano biglie (in realtà replicano qualunque cosa mangino creando tante repliche che escono... beh, potete immaginare da dove, ci siamo capiti?) e tante altre stranezze come è giusto che si vedano in un universo popolato da infinite razze extraterrestri. Valerian, noto sciupafemmine in passato, è follemente perso per Laureline e più volte le chiede di sposarlo, ricevendo costantemente da lei un sonante due di picche. Ce la faranno i due a salvare Alpha dai cattivoni? Ce la farà Valerian ad impalmare Laureline?
Ecco, grossomodo la trama è questa, chiaramente semplificata anche se non troppo. Messa così suona pure interessante, e lo sarebbe davvero, se non fosse che il film soffre di alcuni difetti, uno per me mortale (e che ne ha sancito la bocciatura finale), altri superabili ma che, messi insieme, lo rendono insufficiente. 
Partiamo da quello maggiore, così mi levo subito il pensiero. Madonna quanto mi stanno sulle palle i protagonisti! Non ne avete idea, davvero. Irritanti, inadeguati, totalmente privi di carisma, sopra le righe, ad ogni scena in cui comparivano mi prudevano le mani dalla voglia di prenderli a schiaffi. Se questo è un problema di caratterizzazione, c'è pure una grossa aggravante, data dagli attori: fuori ruolo - ma completamente! - entrambi con facce da ragazzini e che si atteggiano smargiassi ad eroi cazzuti. Ecco, mi si dirà che l'effetto è voluto (d'altronde il film è costantemente pervaso da una sottile vena ironica, tipica di Besson peraltro, e ci starebbe anche bene), ma vedere Cara Delevingne che stenta ad imbastire una scena decente che sia una, ecco, le palle mi rotolano davvero a valle. Lasciatemelo dire, lei è cagna forte a recitare. Alt! Non saltatemi addosso! So benissimo che là fuori, il mondo è pieno di suoi estimatori: ecco, (e)stimatela ma non venite qui a cercare di convincermi, la mia è una repulsione totale che mi impedisce di apprezzarla... non ce la faccio.

Sguardo basito F4 (95% del film così)
Sguardo incazzato (5% del film così)

Al di là dell'aspetto puramente soggettivo, il grosso problema è che se non compartecipo alle vicende dei protagonisti, non mi scatta la scintilla e l'empatia, e tutto il resto crolla come un castello di carte travolto dal gatto fetente che richiama la tua attenzione quando ha fame o è annoiato. Infatti - lo ammetto - a tre quarti del film mi sono pure addormentato per dieci minuti buoni dal tedio misto ad irritazione che mi ha pervaso durante la visione.
Rihanna (cuoricino)
I difetti, ad ogni modo, non finiscono qui. Posso dire che centoquaranta minuti sono eccessivi per una storia di questo tipo, sarebbe bastato togliere una buona mezz'ora di scene inutili e il ritmo ne avrebbe enormemente giovato. Dato che il film è pieno di scene davvero superflue, sarebbe bastato tirare il dado per scegliere quali tranciare e nessuno se ne sarebbe accorto. Un altro problema è l'enorme spreco di talento: visivo, innanzitutto (ci torno) e di attori. Vedere Ethan Hawke e Rutger Hauer in camei dimenticabili mi ha fatto storcere il naso, e dei comprimari si salvano giusto in due: Clive Owen nella parte del capo di Valerian e... udite udite... Rihanna in quella dell'alieno Bubble. Se consideriamo che fra tutti gli attori presenti a spiccare è proprio Rihanna (che attrice non è, ma qui è stata davvero brava nei venti minuti scarsi in cui compare), ecco che il quadro desolante si fa ancora più nitido.
Clive Owen
Un ultimo problema, che un po' è stato anche quello di John Carter (vi rimando qui alla recensione) è che, per quanto entrambi siano da considerarsi dei capostipiti cronologicamente parlando, al cinema ci sono arrivati fuori tempo massimo, causando un enorme per quanto involontario effetto di déjà vu. E quando i protagonisti di Valerian finiscono in uno stanzone che scoprono essere un enorme compattatore di rifiuti, ecco che mi è salita la carogna nonché una risata involontaria: sono ignorante, non so se è stato Star Wars a citare il fumetto originale o se è stato Valerian a citare Star Wars, sta di fatto che il mio cervello è andato in tilt e mi sono lasciato andare inerte sul divano in preda allo sconforto.
Ultimo difetto e poi la finisco, è la trama: non c'è un vero colpo di scena, non c'è carisma, non c'è tensione, lo svolgimento è piatto e prevedibile, già alla seconda scena capisci dove si andrà a parare.
Un esempio tra mille di alieni: molto realistici!
Parlando invece di aspetti positivi, qualcuno potrà tirare un sospiro di sollievo: il film ne ha diversi. Visivamente è un vero spettacolo e per questo i ringraziamenti vanno agli effetti speciali, curati sia dalla WETA che dalla ILM (Industrial Light & Magic). E ci mancava altro, esclamerete: sono le due migliori compagnie di effetti speciali al mondo (la prima nota per il Signore degli Anelli e Avatar, per esempio; la seconda per l'universo dei nuovi Star Wars e dei filmoni targati Marvel). Oltre all'aspetto tecnico, i plausi vanno anche all'inventiva dei creatori perché sono stati in grado di popolare un universo variopinto, bizzarro, multicolorato e, soprattutto, vivo. Mi fa storcere il naso pensare come, dei 17 milioni di potenziali personaggi presenti su Alpha, siano andati a pescare proprio Valerian e Laureline, certo è che sarei molto curioso di vivere altre storie ambientate in questi mondi che non contemplino la presenza di Cagna Delevigne e Dane DeHaan. Infine, per fortuna, la mano di Luc Besson si fa ancora sentire e ci sono alcune sequenze degne di essere vissute. La migliore, a mio avviso, è proprio quella iniziale, in cui assistiamo alla nascita della ISS e alla sua evoluzione in Alpha, sequenza interamente accompagnata dalla splendida Space Oddity di David Bowie. Intuizione bellissima, anche se già usata in più film e telefilm in passato; in Valerian, va detto, ha funzionato meglio che altrove.
In conclusione, per me Valerian è stata un'occasione terribilmente sprecata nonché un'enorme delusione, nato male a causa di un pessimo casting che non è stato in grado di rendere interessante un mondo meraviglioso e pulsante meritevole di un impianto potentemente epico. Invece, così com'è, è solo una storiella come tante, raccontata maluccio, arrivata fuori tempo massimo e totalmente privo di carisma. Dopo il non felice Lucy, Luc Besson sembra aver smarrito il suo tocco magico di regista e un po' mi spiace... non posso pensare che il creatore di capolavori supremi come Leon e Nikita, di una space opera tuttora superiore a Valerian (Il Quinto Elemento), di una serie action carismatica a pacchi come Taken sia caduto così in basso: aspetto sempre un riscatto che però sta latitando da quasi due decenni, almeno alla regia, segno che forse la mia è una speranza vana.

Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 4
Storia totalmente priva di mordente, protagonisti terribilmente irritanti, assoluta mancanza di veri colpi di scena, attori che non funzionano. Un vero e proprio bestiario di cosa non si dovrebbe fare.
Musiche: 7
Un punto in più per la sequenza iniziale grazie a Space Oddity. Per il resto, musiche ottime e coinvolgenti.
Regia: 7
Molti tocchi di classe, splendidi effetti speciali, una sequenza memorabile, poi però tutto diventa prevedibile ed ordinario. Besson poteva fare molto di più.
Ritmo: 6
Parte epico, si adagia sulla sequenza iniziale pallosissima del mondo di Mül, poi decolla alla grande, infine deraglia nella banalità totale. Direi molto altalenante e poco organico nella struttura.
Violenza: 5
Poco da segnalare.
Humour: 6,5
La verve ironica di Luc Besson è sempre viva e affiora qua e là anche in mezzo ai 140 minuti di Valerian. Qualche scampolo di sorriso strappato è garantito.
XXX: 1
Poca roba, inclusa la Delevingne che proprio non mi piace, né fisicamente né come attrice (che non è, e mai lo sarà)
Voto Globale:
5
Valerian è un film che straborda sia visivamente che come presenza numerica di eventi: c'è tanta carne sul fuoco, pure troppa. È un film bulimico a cui però l'inettitudine e l'antipatia degli attori protagonisti, unita allo scarso carisma causato da una brutta sceneggiatura, hanno dato il colpo di grazia. 
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