domenica 18 settembre 2016

Paradise Beach - Dentro l'incubo (2016) | Recensione

Paradise Beach - Dentro l'incubo
Voto Imdb: 6,5
Titolo Originale:The Shallows
Anno:2016
Genere:Azione, Thriller
Nazione:Stati Uniti
Regista:Jaume Collet-Serra
Cast:Blake Lively, Brett Cullen

Poster di Paradise Beach - Dentro l'incubo

Gli squali sono tornati di moda, ma non lo scopriamo ora: tralasciando il discorso Sharknado, che ha un'accezione più di nicchia perché in fondo è una serie di film-tv che poco ha a che fare con il mainstream hollywoodiano, la produzione recente e meno recente ogni tanto sforna un film sui nostri amici pinnati. Senza andare troppo indietro nel tempo, posso citare The Reef (2010), Blu Profondo (1999, ok, per me gli Anni '90 sono ancora passato recente, va bene?), Shark Night - Il lago del terrore (2011), Open Water (2003) e il recentissimo In the Deep (2016, uscito in concomitanza con il film in oggetto della recensione; occhio a non farvi fuorviare dal fatto che In the Deep era anche il titolo provvisorio di Paradise Beach, cambiato poi in The Shallows!). Ho volutamente tralasciato i filoni Asylum dei vari Shark VS Qualunque Altra Bestia Viva o Meccanizzata che vi possa venire in mente, quelli sono degli evergreen buoni per ogni occasione, tanto fanno gloriosamente schifo indipendentemente dalle mode.
Paradise Beach - Dentro l'incubo s'infila dritto nel filone del survival horror, sottosezione "protagonista solitaria contro mille avversità e sfighe assortite che deve lottare contro la morte rappresentata da un feroce squalo assassino". Blake Lively è Nancy Adams, studentessa di medicina che ha appena perso la mamma per un tumore e che deve ancora riprendersi dalla depressione. Si trova a Tijuana, in Messico; sarebbe accompagnata da un'amica, ma ho usato il condizionale perché l'infingarda le rifila un pacco tremendo reduce dai postumi di una sbornia (e con presenza probabile di mandrillo accalappiato in albergo). Nancy resta sola, ma decide lo stesso di intraprendere il suo viaggio: trovare una spiaggia incantevole, la stessa che continua a rivedere in una vecchia foto della mamma. Accompagnata da un locale di nome Carlos, l'intrepida trova finalmente il posto ed inizia ad esorcizzare il suo dramma interiore con una tavola da surf. Alla fine della giornata, dopo aver scambiato due chiacchiere con un paio di surfisti locali, fa un ultimo giro. Queste decisioni avventate solitamente portano con sé tutte le disgrazie di questo mondo; sempre cavalcando le onde, a circa 180 metri dalla riva si imbatte prima in un branco di delfini, poi nella carcassa morente e sanguinante di una balenottera. Sangue chiama squali, anzi uno Squalo Bianco femmina terribilmente incazzato che, per difendere il lauto pasto da altri predatori, attacca la ragazza e la azzanna ad una gamba. Nancy riesce ad evitare la morte per un soffio e si rifugia su uno scoglio che affiora in mezzo all'acqua. Da questo momento inizia una terrificante lotta per la sopravvivenza: lo squalo non la perde di vista e le gira intorno pronto a sbranarla, il sangue sgorga copioso dalla gamba, il freddo della notte inizia ad arrivare e la marea comincia a fare il suo saliscendi giusto per complicare ulteriormente le cose. La ragazza si trova costretta ad affrontare le sue paure e i suoi drammi interiori secondo il collaudato meccanismo della suspense con pericolo -> problema -> risoluzione -> nuovo pericolo ancora più grave e così via fino all'epilogo.
Partiamo con una prima considerazione: il titolo italiano è una vera merda; capisco che una traduzione letterale del titolo originale The Shallows (letteralmente "secche") non sarebbe stato il massimo, ma dare al titolo un nome alla spiaggia è una solenne cazzata, significa non aver colto un piccolo tormentone, per quanto insignificante ai fini della trama, presente nei pochi dialoghi. Mi spiego meglio: Nancy sta cercando la spiaggia dove era stata sua madre, la difficoltà maggiore è che il posto non ha un nome conosciuto e i messicani locali sono molto restii (anzi, non collaborano manco per sbaglio) a dire ai turisti come si chiami quell'angolo paradisiaco. Il tormentone di Nancy che chiede come stracazzo si chiami la spiaggia si trascina per tutto il film, tanto che nemmeno alla fine ne scopriamo il nome. Perché darle un nome inventato nel titolo, allora? Soliti misteri ed idiosincrasie della nostra sempre più povera italica distribuzione.
Quando affermo una cosa, lo faccio con cognizione di causa.
Finito il solito inutile sfogo, torniamo a bomba sul film, spiegando il perché, nonostante alcuni enormi difetti, mi sia piaciuto. Sì, il film funziona molto bene a mio avviso. La formula non è per nulla innovativa, anzi ricalca fedelmente alcuni cliché narrativi di film simili: 20 minuti iniziali di tedio assoluto dove assistiamo alle spiegazioni e cazzi personali della protagonista; poi ci sono alcune sequenze davvero spettacolari in cui vediamo Blake (e le sue chiappe) solcare le onde splendidamente colorate e vividamente saturate. Infine, l'ultima ora è quella in cui entra in scena lo squalo e tutto si regge sulle spalle dell'attrice. C'è lei, e solo lei, contro le avversità, la stupidità umana (quella non manca mai) e la cattiveria del predatore che la bracca senza sosta. Diciamo pure che Paradise Beach è un Cast Away al femminile con l'aggiunta dello squalo e una spruzzata molto lieve di horror quando assistiamo ad alcune morti trucide per mano, anzi per bocca del nemico. Come scrivevo prima, il meccanismo della suspense funziona molto bene perché mi ha tenuto inchiodato davanti allo schermo solo per scoprire come Nancy avrebbe superato la prossima difficoltà. L'interpretazione di Blake Lively, va detto, è stata molto convincente e ha trasmesso, almeno a me, tutto il suo desiderio di aggrapparsi alla vita coi denti e con le unghie. In una sequenza diventa Rambo (si cuce lo squarcio alla gamba con orecchini e catenina! D'altronde studia medicina e sa come evitare di far andare in cancrena la gamba); in un'altra, aiutata anche dalla controfigura, surfa come Jan-Michael Vincent in Un mercoledì da leoni (film che tirerò sempre fuori quando si parla di surf, è quello che per me resta da sempre il termine di paragone); in un'altra ancora, in un primissimo piano, assistiamo tramite il suo sguardo terrorizzato alla morte di un poveraccio. Quest'ultima scena ha ben recepito una regola dettata da Steven Spielberg ne Lo Squalo: meno vedi, più ti spaventi. (poco importa se le ragioni originarie erano da ricondurre al risultato pietoso del modello di squalo utilizzato, troppo posticcio e finto per risultare credibile).
Ed ecco che arriviamo ai problemi di Paradise Beach, ve li elenco in sequenza.
Ucci ucci ucci sento odore di squalucci
Problema numero uno: più si va avanti con la visione, più il nemico si mostra non solo alla protagonista, ma anche a noi. E che lo squalo sia in CGI è purtroppo un elemento che si nota troppo bene, togliendo parte di quella suspense che era stata ben veicolata fino a quel momento.
Problema numero due: alla fine, detto da uno che digerisce i terribili effetti speciali di Sharknado, la CGI non è nemmeno il cruccio più grosso. Il vero problema è che lo sceneggiatore NON SA ASSOLUTAMENTE UN CAZZO DI SQUALI. Lo dico urlando ed inveendo. Ce lo insegnano decine di film degli ultimi vent'anni: se c'è una balena morta pronta ad essere spolpata, lo squalo bianco se ne sbatte allegramente di un minuscolo essere umano che zompetta qua e là. Me lo dice anche la logica: perché inseguire un moscerino quando hai a disposizione della GRASSA e SUCCULENTA carne gustosa, proteica e soprattutto immobile? Zero sbattimento, perché mettere in piedi un'insensata caccia ad un pezzo di cibo che deve pure essere cattivo? In una situazione del genere, lo squalo semplicemente ignora l'essere umano. Non lo caccia inesorabilmente per due giorni interi, non esiste né in cielo né in terra, nemmeno se ha un arpione conficcato che potrebbe averlo indotto ad incazzarsi. In questo caso, però, non risulta credibile la spiegazione detta dalla protagonista (il predatore protegge il cibo). Inoltre, in un'inquadratura iniziale si vede un branco di delfini: è cosa nota e risaputa che gli squali evitano zone frequentate dai delfini, non certo perché ne hanno paura (leggenda metropolitana), ma per il semplice fatto che, da animali solitari quale sono, difficilmente vanno contro un branco intero di altre specie.
Problema numero tre: una sorta di mancanza di credibilità della situazione generale in cui si è cacciata la protagonista. Lo dicono le guide turistiche, lo dicono gli americani razzisti, i surfisti e i messicani stessi: è poco plausibile che una ragazza si avventuri da sola in una zona oltreconfine così impervia ed ignota, e non esiste che da sola si metta ad affrontare le onde di un mare che non conosce.
Problema numero quattro: la storia del dramma personale esorcizzato in modo traumatico e sanguinolento avrebbe anche leggermente frantumato i maroni; il problema è che se elimini queste parti, il film diventa un mediometraggio e tanti saluti alla distribuzione cinematografica.
Nancy e il suo isolotto di sopravvivenza
Alla fine, tre dei quattro difetti principali del film sono riconducibili ad una sceneggiatura non all'altezza del resto della produzione, perché per il resto, Paradise Beach ha altri aspetti positivi; Blake Lively a parte, quello che mi è piaciuto particolarmente è stata la fotografia. Ho adorato i colori e le riprese marine; i colori, in particolare, sono vividi ed accesi e le tonalità dal verde all'azzurro del mare sono brillanti. Le riprese da surf, per quanto patinate, hanno un fastidiosissimo effetto ralenty per enfatizzarle; in questo caso siamo ancora lontani dall'epica di John Milius presente nel sempre citato Un mercoledì da leoni ma va anche detto che qui il surf è solo un di più aggiunto tanto per dare minutaggio alla parte iniziale e fornire lo spunto che dà il via alla situazione drammatica della protagonista. Carine le inquadrature che fanno tanto ggggiovine moderno: sovrimpressioni delle schermate di smartphone e inquadrature dell'orologio subacqueo che scandisce l'arrivo delle maree. Belle le musiche di Marco Beltrami, solido compositore di oltre un centinaio di score cinematografici (e due nomination agli Oscar nel carniere), non male la regia di Jaume Collet-Serra, conosciuto per due bei film action con Liam Neeson, Unknown - Senza identità (2011) e Non-Stop (2014). Resta peraltro la curiosità di sapere come sarebbe risultato il film se a dirigerlo fosse stato Louis Leterrier, che ha abbandonato le riprese preliminari per divergenze con la produzione perché a suo dire il budget è stato più basso di quello promesso; mi sarei aspettato molto dal regista di The Transporter (2003), Now you see me (2013) e Scontro tra titani (2010). O forse sarebbe risultata una tamarrata galattica, chissà.
In conclusione, Paradise Beach funziona nonostante tutti i suoi difetti, ha una forma curata, ha un ritmo serrato nell'ultima ora, si poggia per buona parte sulle sole spalle della brava Blake Lively e porta a casa un buon giudizio perché se la sua essenza è voler essere cinema d'evasione, lo fa dannatamente bene. Dotatevi in ogni caso di una buona scorta di sospensione dell'incredulità perché è imprescindibile per goderselo appieno.

Nancy / Blake Lively

Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 4,5
Il giudizio non può essere positivo: Paradise Beach è un film che non aggiunge niente di nuovo, percorre solidamente i solchi dei soliti cliché di genere e, per di più, risulta poco credibile e poco attento ad alcuni particolari.
Musiche: 7
La colonna sonora di Marco Beltrami è ben fatta e ben si accompagna alla narrazione delle vicende di Nancy.
Regia: 7
La resa visiva è eccezionale anche se purtroppo i delfini, le meduse e lo squalo in CGI sono troppo posticci ed evidenti. Con il budget a disposizione, immagino non si potesse ottenere di più, ma ho qualche dubbio al riguardo.
Ritmo: 8
Togliamo i primi venti minuti, il resto del film non si ferma mai e mantiene il giusto livello di tensione fino all'epilogo.
Violenza: 6
Vale più il "vedo non vedo", ma un paio di scene abbastanza splatter sono presenti. Niente di che, intendiamoci, ma non è un film per famiglie.
Humour: 5
Non l'ho scritto nella recensione, ma il film è molto serio, c'è un simpaticissimo gioco di parole nella versione originale che si è persa nella traduzione italiana. Nancy ha un compagno di sventure ed è un gabbiano con un'ala rotta; lei lo chiama Stephen. In originale gabbiano = seagull, eccovi serviti Stephen Seagull (Steven Seagal).
XXX: 5
Ebbene sì, c'è del fan service, nella prima parte il regista indugia spesso su Blake Lively in bikini.
Voto Globale: 7
A me è piaciuto: apprezzo il genere, mi piace il survival horror (qui molto edulcorato), mi piacciono gli squali e ho apprezzato che il film sia riuscito a farmi restare col fiato sospeso nonostante i suoi evidenti limiti di credibilità.

giovedì 15 settembre 2016

Sharknado 4: The 4th Awakens (2016) | Recensione

Sharknado 4: The 4th Awakens
Voto Imdb: 4,3
Titolo Originale:Sharknado 4: The 4th Awakens
Anno:2016
Genere:Fantascienza, Catastrofico, Azione
Nazione:Stati Uniti
Regista:Anthony C. Ferrante
Cast:Ian Ziering, Tara Reid, David Hasselhoff, Masiela Lusha, Ryan Newman, Cody Linley

Solita scena stilosa del cast.
Doverosa apertura che scatta ogni volta che c'è una recensione su un film della serie Sharknado: sapete di cosa si parla? Benissimo! Allora proseguite nella lettura. Non lo sapete? Il consiglio spassionato che potrei darvi sarebbe un generico: "Fermatevi pure qui, se ancora non lo sapete dopo tre anni, molto probabilmente l'argomento non vi interessa ed è inutile che proseguiate." La verità è che io spero sempre che qualcuno possa voler imparare sempre qualcosa di nuovo, in tal caso la risposta diventa un eloquente: "Leggetevi lesti le recensioni dei tre film precedenti!"
Ora che, in un modo o nell'altro, siete pronti, passiamo pure alla recensione vera e propria.

Super spoiler, #AprilLives
Lo so, cari amici, lo so benissimo qual è la prima domanda che vi sta frullando per la testa, e riguarda la fine del terzo film che ci aveva lasciati tutti letteralmente col fiato sospeso e l'insopprimibile voglia di sapere se April sarebbe sopravvissuta dopo la scena finale. Avete letto il cast e conoscete già la risposta: Tara Reid, l'attrice che la interpreta, è presente, quindi, sì, purtroppo ha vinto #AprilLives. La genialata della produzione Asylum è stata nel far decidere ai telespettatori il fato del personaggio tramite Twitter: in base alla maggioranza di voti raccolta da #AprilLives o #AprilDies la sceneggiatura si sarebbe regolata di conseguenza.
Beh, lasciatemi dire che ci è stata regalata una piccola sorpresa, quindi non disperate voi che, come me, avevate scelto un perentorio #AprilDies!
Gigi la Trottola
(fotogramma dalla sigla iniziale)
Titoli di testa; ahia, partiamo decisamente male. Ci troviamo di fronte all'ennesima citazione di Guerre Stellari, con la scritta Sharknado nel font Star Jedi e un preambolo in prospettiva che scorre a sfumare, con un tema musicale raffazzonato su tastiera che richiama ovviamente in modo smaccato le famose note composte da John Williams. Dai, davvero, non ci aveva mai pensato NESSUNO a prendere per il culo Star Wars! NESSUNO! Evito di citare Mel Brooks e i cartoon americani che hanno dedicato puntate e speciali interi (Griffin, Simpsons e Futurama su tutti), ma quando ti ricordi che perfino Gigi la Trottola (Dash Kappei, 1981) ha preso in giro Star Wars a più riprese (un allenatore avversario vestito da Dart Fener, rivelatosi poi suo nonno, e l'intero episodio 18 "Gigi la Star", in cui la Morte Nera è un gigantesco pallone da basket), capisci che non se ne può più della gara a citare Star Wars, denota una tristissima mancanza di idee; poco importa che si parli del Risveglio della Forza, la sostanza non cambia.

In preda a foschi presagi sulla povertà di intuizioni messa in campo, continuo la visione con un crescente sentore di mestizia letale.

Un cattivissimo David Hasselhoff
Cinque anni dopo gli avvenimenti del terzo film, gli sharknado non sono più un problema: il grande miliardario scienziato Aston Reynolds, proprietario della Astro-X, ha ideato una tecnologia in grado di neutralizzare i tornado squamosi e, per di più, ha recuperato dalla Luna Shepard Senior, il padre di Fin interpretato da David Hasselhoff. Fin (il confermatissimo Ian Ziering) vive con la sua famiglia in una cascina nel Kansas a spaccare legna, aiutato da sua madre, i figli e una cugina gnocca. April è morta l'anno prima dopo essere stata a lungo in coma.
Come giustamente strilla il sindaco di Chicago, una fortissima Stacey Dash, Fin porta una sfiga incommensurabile e, dovunque lui si palesi, uno sharknado compare dal nulla portando morte e distruzione.
Fin e Gemini sul Galeone Playmobil
Come pensate che andrà a finire? Dovete sapere che il magnate Reynolds, per festeggiare la sconfitta degli sharknado, ha inaugurato a Las Vegas un hotel tematico pieno di... SQUALI VERI! E sappiate anche che Fin è in viaggio proprio a Las Vegas insieme alla cugina gnocca Gemini (Masiela Lusha) per andare a trovare il figlio di ritorno dall'Iraq. Il film non ce lo spiega e a noi non interessa: Fin arriva a Las Vegas in contemporanea con un tornado di sabbia che la Astro-X di Reynolds non riesce a debellare; il vortice colpisce in pieno l'hotel strabordante di squali et... voilà! Uno Sharknado è pronto a creare nuova devastazione! Un primo sharknado raccoglie grandine e diventa "hailnado", in direzione San Francisco; un secondo colpisce il parco di Yellowstone e qualche vulcano sotterraneo, diventando un "lavanado". Ma il peggiore di tutti è il terzo: così come Dragonball ci insegna, ad ogni step del nostro eroe ci deve essere un significativo incremento della difficoltà e cattiveria del nemico; questa volta il tornado si evolve! Inizialmente è una tempesta di sabbia e squali ("sandnado") che poi si scatena e distrugge l'Hoover Dam e si dirige al Gran Canyon (diventando un "bouldernado" perché raccoglie massi al suo passaggio), poi va in direzione Texas diventando un "oilnado"  perché colpisce una raffineria che, prendendo fuoco, dà origine al "firenado". Non è finita: quando al passaggio in un campo il vortice raccoglie una mandria di mucche, si tramuta in un temibilissimo "cownado". Tenete presente che gli squaletti continuano a girare in vortice, ora diventando pietre, ora inzuppandosi di petrolio, ora infuocandosi. Il peggio deve ancora arrivare: il vortice devasta una centrale nucleare e diventa il supersayan di tutti i tornadi: il terrificante "nukenado" con orde di famelici squali verdi-radioattivi che divorano vittime senza pietà lasciando una scia di fallout nucleare non indifferente. I primi due tornado vengono debellati, ma per il terzo c'è bisogno di una enorme quantità di acqua necessaria per raffreddare il nukenado, così come la fusione fredda ci insegna (eh!?); l'unico posto che contiene il necessario sono le cascate del Niagara, dove si conclude l'arco narrativo.
In mezzo a tutto questo bailamme a cui si fa fatica a stare dietro, incontriamo personaggi vecchi e nuovi ma la parte del leone è stata riservata ad April! Ovviamente lei non è morta o, meglio, è morta davvero ma il padre scienziato (Gary Busey), tenendo tutti all'oscuro, l'ha trasformata in una sorta di Cyborg - Iron Man - Terminator. Hai capito gli sceneggiatori? Hanno davvero ammazzato April, ma lei è ancora in mezzo a noi. Furbacchioni, ci avete fregato ancora una volta.
Masiela Lusha *_*
Ok, non racconto altro sulla trama, primo perché non ce n'è il bisogno, secondo perché diventerei altresì noioso. Ma spero di aver reso chiaro un concetto: già dopo 15 minuti, il terrore e la mestizia che si erano impossessati di me dopo i titoli di testa sono stati spazzati via prima da Gemini, poi dalla follia che deve essersi impossessata degli sceneggiatori. Di idee strampalate ce ne sono a IOSA, e per esse vale la semplice regola: sempre di più, sempre più esagerate. Mi domando fino a dove vogliano spingersi con il quinto film della serie, anche se un'idea ci viene spiattellata durante la scena finale. La racconto? Non la racconto? Ma chissenefrega, mica vi guardate Sharknado per la trama! Ecco cosa succede: quando tutto sembra finito, quando la solita famiglia americana si ricompone in allegria, dal cielo arriva roteando come una stellina ninja la TORRE EIFFEL, che si conficca nel terreno con un roboante frastuono mentre a cavalcarla s'intravede una figura femminile: Nova. Sì, lo Sharknado pare non sarà più un problema solo americano, ma anche mondiale! Sono qui che mi frego le mani all'idea di quale altro delirio vedremo l'anno prossimo.
Per il resto, Sharknado 4 continua seguendo fedelmente i binari dei film precedenti:
  • povertà realizzativa disarmante
  • capacità attoriale imbarazzante
  • citazioni a profusione saccheggiando a piene mani dal dorato mondo dei nerd
  • camei di celebrità finite sul viale del tramonto e riesumate per l'occasione.
Sui primi due punti non ho altro da dire: il budget non è cambiato di una virgola e gli attori sono tutti dei cani, anche se, come sempre, Ian Ziering si impegna come non mai. D'altronde è anche produttore, se non ci crede lui nel progetto chi mai può farlo?

Matrioska di squali. Epic Win.
Il gioco delle citazioni a me diverte tantissimo, ormai ho capito che non devo stancarmi perché so che è uno dei giochi a cui noi spettatori affezionati ci prestiamo durante la visione. Ecco un elenco parziale di quelle che ho colto più o meno immediatamente:
  • Non aprite quella porta: durante le scene in Texas, una famiglia intera affronta il tornado con una sega elettrica in mano; un paio di attori hanno partecipato ai film originali ed uno dei personaggi si chiama Gunnar;
  • Tutta la scena in cui compare Steve Guttenberg è fantastica e richiama Christine La Macchina infernale grazie all'apparizione di una Plymouth rossa. Sono sincero: ho riso di gusto. Sono onesto: mi basta poco;
  • "Buckaroo Banzaiiiiiii!" urlato da Reynolds quando si lancia nel vuoto: lo dicevo nella recensione omonima, a me il film non è piaciuto ma per molti è un cult imprescindibile;
  • Baywatch: porco mondo, hai a disposizione David Hasselhoff, perché non citare Baywatch? Ovviamente, eccovi serviti: compaiono Alexandra Paul e Gena Lee Nolin che corrono come nella sigla ma... beh, vengono tristemente divorate da due squali radioattivi;
  • Terminator: April / Tara Reid pronuncia in due punti diversi due battute iconiche: "I'll be back" e "Come with me if you want to live";
  • "Hail to the king" dell'immancabile Armata delle Tenebre: compare un Hail-to-the-nado...
  • Star Wars, ovviamente, con l'altrettanto immancabile "Che la Forza sia con te" quando April accende una spada laser (sì, ci sono anche queste)
  • Aliens scontro finale: l'esoscheletro di Fin è un chiaro omaggio;
  • Infine, quella che per me è la migliore di tutte: "He's a sharknado whisperer", l'uomo che sussurrava agli sharknado (riferito a Fin, ovviamente). Poesia allo stato puro.
Escucha muchacha... io ho bisogno di sapere una sola cosa: donde està! 
Parliamo invece degli attori e dei camei principali degni di menzione:
  • Gary Busey nel ruolo dello scienziato pazzo padre di April. Se il nome non vi dice nulla, vi consiglio caldamente:
    • 1) di fustigarvi
    • 2) di guardare IMMEDIATAMENTE questi due film pietre miliari sul mondo del surf: Un mercoledì da leoni e Point Break. Mi ringrazierete per l'eternità. Per quanto riguarda il buon vecchio Gary, non parliamo di declino, sarebbe come sparare alla Croce Rossa;
  • Masiela Lusha nella parte della cugina Gemini. Lo ammetto: mi aspettavo una sorta di love interest tra Fin e la cugina, se mai fosse successo avrei applaudito gli sceneggiatori per aver seguito il detto "Non c'è cosa più divina...". Bando alle ciance, nemmeno sapevo chi fosse Masiela, ma è evidentemente materiale buono per il Neurone Numero 4, sempre presente quando si tratta di Sharknado;
  • Paul Shaffer, affermato musicista, pianista e compositore che conoscerete sicuramente se avete visto in passato lo show di David Letterman;
  • Lloyd Kaufman, una delle due menti pensanti della Troma e regista di caposaldi quali Toxic Avenger e Tromeo and Juliet; compare un microsecondo come tecnico della Astro-X, ma resta simpatico lo scambio di omaggi Asylum / Troma
  • Vince Neil dei Mötley Crüe compare come ospite di un casinò a Las Vegas.
Eccoli, direttamente da Texas Chainsaw Massacre!
Sharknado, come sempre, porta in dote anche una serie di scene che verranno ricordate per la loro idiozia, assurdità ed epicità; qui di seguito, una carrellata con una personale selezione.
  • Sappiate che April, ora che è Iron Man elettrificata (e forse anche radioattiva) può riportare in vita i malati con due squaletti usati come defibrillatori!
  • Nel delirio del tornado finale, assistiamo impotenti ad una scena che avrebbe fatto esplodere il Collodi con una ovazione: uno squalo mangia un secondo squalo, ma viene inghiottito da un terzo che, a sua volta, viene divorato da un quarto per finire in bocca ad una balena. La cosa brutta brutta brutta è che all'interno dei vari squali e balena c'è tutta la famiglia di Fin...
  • Non vengono toccati solo l'Hoover Dam e il Gran Canyon: anche il Monte Rushmore, altro simbolo americano, viene colpito dalla furia dello sharknado.
  • Fin sfoggia l'arma definitiva: una spada-moto-sega che ricorda vagamente quella di Kylo Ren in Star Wars: il Risveglio della Forza.
  • In una delle prime scene, viene omaggiata perculata la carriera di spogliarellista intrapresa da Ian Ziering; i Chippendales affrontano gli squali volanti e li fermano con la mossa di... Elvis The Pelvis in the Memphis. Fatevi un favore e rinfrescatevi la memoria con questo pezzo di storia della televisione italiana: https://www.youtube.com/watch?v=3Y96M7iEdPw
  • Una delle sequenze più folli e totalmente assurde ha come protagonista uno sferoide composto da spago tipo quello da cucina e tanti squaletti incastrati. La palla è un monumento grosso così e semina distruzione per la città; solo Fin riesce a fermarla semplicemente legandola ad un lampione.
  • Altra sequenza cult presa da Las Vegas: Fin e famiglia si salvano a stento su un galeone trash presente nella scenografia di un albergo; la nave però affonda perché si scontra fatalmente contro uno scoglio di squali. Sì, indovinate come l'hanno chiamato? Sharkberg, ovviamente...
  • Subito dopo vediamo Fin e morosa del figlio a bordo di una macchina, lanciata giù dal tetto dell'hotel per cercare salvezza dal tornado; usando le portiere come alettoni improvvisati, l'auto plana sulla strada senza troppi danni. Punto esclamativo (!).
Colpo del Pacco Dirompente!

Auto e portiere-alettoni.
Chiamate Vin Diesel,
c'è un'ideona per Fast 8!
In definitiva, nonostante i soliti aspetti negativi che è inutile rimarcare in questa sede, aspetti che ne sono ormai un tratto peculiare a cui, peraltro, devo aggiungere un David Hasselhoff sottotono più impegnato a fare il nonno che a spaccare i culi come nel terzo della serie, Sharknado 4 si è rivelato una sorpresa: intendiamoci, il film è terribile, esattamente come tutti gli altri, ma ha l'indubbio pregio di non fermarsi mai, di divertire e di regalare un'ora e mezza di visione spensierata. Se siete persone serie, vecchie dentro e fuori, evitate il film come la peste. Se avete voglia di risvegliare lo spirito cazzone che c'è in voi, questa potrebbe essere l'occasione giusta.

E ora sotto con il 5, #TeamNova ci aspetta, perbacco!
In fondo, come sempre, troverete il Neurone Numero 4 ad aspettarvi.


Il Pagellone!
Così è deciso!
Trama: 4
No, seriamente? Il livello di trama è ridicolo, ci sono diversi sharknado che, inspiegabilmente, si propagano e diventano sempre più potenti. Fine della storia.
Musiche: 6,5
Lasciamo stare il tema spacciato in stile Star Wars e concentriamoci sulla frizzante canzone che si sente nei titoli di testa: orecchiabile!
Regia: 5,5
Poco meno che sufficiente, gli effetti speciali sono atroci, le inquadrature idem ma si lascia comunque guardare.
Ritmo: 8
Il ritmo è il punto di forza del quarto film, insieme all'accozzaglia di idee assurde messe a casaccio una dietro l'altra. Sharknado 4 è un Eurostar sparato senza freni.
Violenza: 7
La rappresentazione grafica è inguardabile, ma ci sono tanti squaletti che mozzano teste e accoppano i personaggi. Onestamente, non posso chiedere di più.
Humour: 7
Ecco un esempio di film che non si prende minimamente sul serio: e fa benissimo, questa è la strada giusta.
XXX: 1
Non posso dare zero a Gemini...
Voto Globale: 7
Voto relativizzato, esattamente come gli altri tre della serie: è un tre se volete giocare a fare gli adulti rompiballe, è un 7 se, invece, volete evadere per qualche decina di minuti. Un pelino meglio del terzo, oltretutto.

Gena Lee Nolin (la mia preferita in Baywatch, altro che Pamela Anderson o Carmen Electra!)



Masiela Lusha




Ryan Newman




venerdì 2 settembre 2016

Gene Wilder (1933-2016): un mio piccolo tributo per ricordarlo




Segni particolari: non bello, diciamolo, ma intensi occhi azzurri, sguardo sornione, capelli biondi e ricci, naso aquilino. Un uomo tranquillo, ma capace di spiazzare con una battuta sarcastica, proprio come i suoi personaggi: persone normali catapultate in situazioni anormali. Con alcune brillanti, memorabili eccezioni.
Provate a chiedere a chiunque: "Se dico Gene Wilder, tu a cosa pensi?"
La risposta, frutto di una opinabilissima convinzione personale, sarà più che probabilmente associata ad uno di questi tre film:
  • Frankenstein Junior (55%)
  • Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (35%)
  • La donna in rosso (10%)
Mi sono anche sbilanciato: ho messo fra parentesi una mia stima in percentuale del tutto arbitraria.

I protagonisti da lui interpretati sono tre personaggi diversissimi tra loro: un genio, un eccentrico e, appunto, un normale come me e te, amico lettore che leggi.

Senza aver la pretesa di scrivere una biografia / filmografia ragionata su questo grande attore, il mio è più un tentativo di ricordarlo attraverso qualche film che sia diverso dai cult che, a ragione, tutti noi ricordiamo, parlando in particolare della sua collaborazione con l'attore Richard Pryor.
Gene Wilder (nome d'arte di Jerome Silberman), proveniente da una famiglia di ebrei russi, è nato a Milwaukee (Wisconsin, Stati Uniti) nel 1933 ed è morto a Stamford (Connecticut, Stati Uniti) il 29 agosto 2016. Dopo essere riuscito ad entrare nell'Actors Studio e dopo un'iniziale gavetta a teatro, ottiene il primo ruolo cinematografico nel film Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967). La svolta della sua carriera avviene grazie all'incontro con Mel Brooks, conosciuto già ai tempi del teatro. Insieme si lanciano su Per favore, non toccate le vecchiette: esordio come co-protagonista per Gene e come regista per Mel. Tralasciando il discorso sul titolo italiano (quello originale è The Producers, 1968), la storia di due produttori di Broadway che si convincono che creare un fiasco colossale sia grandiosamente remunerativo spendendo meno del minimo sindacale per intascarsi i costi di produzione e che quindi decidono di produrre quello che a detta loro sarà il peggiore spettacolo di sempre, fa sì che Mel vinca l'Oscar per Miglior Sceneggiatura Originale e Gene ottenga la nomination per il Miglior Attore non protagonista. Non male come debutto!
Dopo altri film che non nomino perché non li ho visti e/o non ricordo (sono onesto!) arriviamo al 1971: è l'anno del primo grande cult Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato; originariamente il film fu un insuccesso, secondo Wiki perché le famiglie - target dichiarato del film - non apprezzarono il taglio cinico e surreale che permeava l'intera pellicola; probabilmente doveva esserlo per gli standard americani, perché se si pensa alle fiabe dei fratelli Grimm, i bambini tedeschi assimilavano storie ben più truci. Per i trentenni e quarantenni di oggi, Willy Wonka è invece un cult imprescindibile e da un suo fotogramma è nato un gettonatissimo meme che sicuramente molti bimbiminkia di oggi usano senza nemmeno sapere di cosa si stia parlando. Degno di menzione - solo quella - il remake di Tim Burton con Johnny Depp del 2005: a mio giudizio appena passabile, visto anche quanto poco io apprezzi il regista (leggere recensione di Dark Shadows per avere un'idea), ma di grande successo al botteghino. Facciamo un balzo al 1974: è l'anno dei grandi successi grazie a due film usciti a breve distanza l'uno dall'altro, entrambi diretti da Mel Brooks; Mezzogiorno e mezzo di Fuoco (Blazing Saddles) e, soprattutto, Frankenstein Junior (Young Frankenstein). Non mi dilungherò a parlarne, il secondo è una miniera di gag e frasi di culto che chiunque della mia generazione è in grado di recitare a memoria. Il merito, va detto, non è solo di Mel e Gene, o della geniale sceneggiatura scritta da entrambi su idea di partenza di Gene, ma anche di Marty Feldman, che nel ruolo del servo Igor entra di diritto nell'immortalità cinematografica. Mi si permetta di aggiungere un ulteriore fattore: il fantastico adattamento in italiano di un copione ricco di battute linguistiche molto difficili da rendere; il merito va tutto a Roberto De Leonardis (traduttore ed adattatore) e a Mario Maldesi (direttore del doppiaggio e dialoghista), che alleggerì e rese geniali alcune battute altrimenti tradotte in senso troppo letterale. Questo è probabilmente il motivo per cui Frankenstein Junior ebbe il maggior successo nei paesi anglofoni e... in Italia.
Arriviamo finalmente al 1976, il motivo principale per cui ho deciso di scrivere questo lungo pezzo. Perché per me Gene Wilder non è solo l'uomo dagli occhi spiritati che urlò "SI PUO' FARE!", ma è anche l'imbranato viaggiatore catapultato in una storia d'azione e romanticismo che in molti dovrebbero rispolverare. Sto parlando di Wagon-Lits con omicidi, diretto da Arthur Hiller. 
Arthur Hiller
Ah, i tristi casi della vita: il regista Arthur Hiller è mancato pochi giorni prima di Gene Wilder, il 17 agosto 2016 a 92 anni; la notizia della sua scomparsa è stata riportata sui maggiori quotidiani nazionali, ma l'eco è stata sicuramente minore, diciamo pure che se lo sono calcolato in pochi. Famoso soprattutto per il film strappalacrime Love Story (1970), Hiller si è fatto le ossa con diversi episodi della serie Alfred Hitchcock presenta e, fra la trentina di film da lui diretti, due ci riguardano da vicino: Wagon-Lits con omicidi, appunto (Silver Streak, 1976) e Non guardarmi: non ti sento (See No Evil, Hear No Evil, 1989). Questi due film, insieme a Nessuno ci può fermare (Stir Crazy, 1980) e Non dirmelo... non ci credo (Another You, 1991), sono quelli che Gene Wilder ha interpretato in coppia con Richard Pryor, formando con lui un binomio di successo quasi pari a quello con Mel Brooks.

Wagon lits con omicidi: parte del cast

Wagon-Lits con omicidi - Una minirecensione
Il Silver Streak è un treno che percorre la tratta Los Angeles - Chicago in tre giorni e tre notti. George Caldwell (Gene Wilder) ha paura dell'aereo, non ama viaggiare ed è per la prima volta su un treno; è un uomo tranquillo, divorziato, e deve raggiungere Chicago per il matrimonio della sorella. I suoi propositi sono semplici: leggere e approfittare della quiete per portare avanti il suo lavoro di editor di libri e manuali. A bordo incontra Bob Sweet (Ned Beatty), un venditore di vitamine, che sfrutta il viaggio in treno per sfondarsi di alcool e rimorchiare le donne passeggere perché, a detta sua, chi viaggia in treno cerca giusto un'avventura fugace; una versione romantica della turista tedesca in riviera romagnola, per intenderci. Fin qui tutto bene, ma presto arrivano i guai: Bob fallisce clamorosamente l'approccio con una splendida ragazza, Hilly Burns (Jill Clayburgh), che invece si invaghisce ricambiata proprio di George, colpita dalla sua eleganza, le buone maniere e l'arguzia. Si può credere o meno ai colpi di fulmine e agli incontri speciali riservati dal destino, ma questo sembra essere proprio un caso da manuale: George e Hilly si piacciono e passano la prima notte insieme; proprio quando l'atmosfera inizia a farsi più hot, George vede il cadavere di un uomo cadere dal treno, passando davanti al loro finestrino. Tutto precipita in poco tempo: Bob Sweet in realtà non è un venditore di vitamine ma un agente federale e l'uomo ucciso sembra essere proprio il professore di cui Hill è segretaria; nel frattempo, brutti sgherri si aggirano per il treno in ricerca di qualcosa in possesso del luminare deceduto. George, suo malgrado, viene sballottato in una avventura ricca di intrighi alla Hitchcock-maniera: per tre volte scende dal treno contro la sua volontà e per tre volte riesce a risalirci sopra prima di concludere il viaggio. Scaraventato fuori la prima volta da Reace, il gigante con i denti di acciaio che rivedremo anche in due 007 nel ruolo di Jaws (La Spia che mi amava, 1977 e Moonraker Operazione Spazio, 1979); caduto dal tetto del treno la seconda volta, inciampato sul classico semaforo mobile delle ferrovie; lanciatosi giù dal ponte in un fiume la terza volta per sopravvivere ad una sparatoria. Memorabile la sua esclamazione "Porca puttana!" ("Son of a bitch!" in originale) che George urlerà ad ogni caduta dal treno.
Durante uno dei suoi tentativi di risalire a bordo, ad un'ora abbondante dal'inizio del film, George incontra il nero Grover (Richard Pryor), di professione: ladruncolo da strapazzo. I due stringeranno una forte amicizia e si daranno man forte per salvare la ragazza dalle grinfie dei criminali. Senza nulla spoilerare sul destino dei nostri eroi anche se ho già rivelato fin troppo, voglio comunque sottolineare come il folle viaggio del Silver Streak si concluda a velocità smodata contro la stazione di Chicago in una scena altamente spettacolare che mai mi sarei immaginato di vedere in un film del genere.
Wagon-lits con omicidi è un film strano e, per certi versi, atipico. Ha il ritmo compassato della commedia, contiene alcune ingenuità di sceneggiatura soprattutto nei confronti del cattivo Deverau, ma ha dalla sua alcuni punti di forza che lo rendono un film godibilissimo anche a distanza di quarant'anni dalla sua uscita:
  • Il connubio Gene Wilder - Richard Pryor funziona alla grande (questo è di fatto il primo buddy movie interrazziale della storia del cinema) e alcune scene che li riguardano sono davvero esilaranti, su tutte quella in cui Grover traveste George da nero per sfuggire alla polizia;
  • I dialoghi sono ben scritti, ricchi di battute fulminanti e situazioni ai limiti dell'assurdo; l'incontro di George con uno sceriffo imbecille come pochi mi fa ridere ogni volta che lo rivedo;
  • Non è propriamente un film politically correct, sia come linguaggio che come uccisioni mostrate su schermo;
  • Come accennato, il ritmo del film non è travolgente come si può immaginare, ma la scena finale è senz'altro memorabile;
  • La colonna sonora di Henry Mancini è di sicuro impatto;
  • Così come gli occhi azzurri di Jill Clayburgh.
Jill Clayburgh
Il film fu un ottimo successo commerciale; giusto per dare un termine di confronto, nello stesso anno uscì Cassandra Crossing, un catastrofico pieno di star - così come andava in voga in quegli anni - ambientato su un treno in viaggio per l'Europa: nonostante la presenza di attori del calibro di Richard Harris, Sophia Loren, Martin Sheen, Burt Lancaster, Ava Gardner, OJ Simpson e Alida Valli, recuperò a malapena le spese di produzione, e solo grazie al successo avuto in Giappone (!).



Forti del successo di Wagon-lits, Wilder e Pryor girarono altri tre film, così come ho anticipato prima:

Nessuno ci può fermare (1980)
Curioso il fatto che a dirigerlo fu Sidney Poitiers, il primo attore afro-americano a vincere un Oscar. Tra i film della coppia, fu quello che in assoluto incassò di più (oltre 100 milioni di dollari solo negli Stati Uniti, dove fu il terzo maggiore incasso del 1980, anno dominato da L'impero colpisce ancora). Skip e Harry sono due disgraziati disoccupati che partono verso Hollywood in cerca di fortuna; incontrano dei personaggi molto loschi nonché improbabili con i quali organizzano una rapina che, però, va male e vengono tutti arrestati e condannati a 125 anni di carcere. La storia è un susseguirsi di situazioni assurde e grottesche con i protagonisti che cercano di evadere in tutti i modi; scopriremo insospettabili abilità nel rodeo meccanico, chirurghi che castrano accidentalmente i pazienti, secondini sadici e carcerati enormi e cattivissimi. Il film funziona molto bene, così come l'alchimia tra i due protagonisti Wilder - Pryor, al punto che le loro scene più riuscite furono per lo più improvvisate sul set durante le riprese. Il merito del successo va ripartito tra la complicità dei due attori principali, la follia che pervade l'atmosfera dell'intera pellicola e la bravura del regista nel pattinare sul filo del vaffa a causa delle bizze da star che cominciarono a caratterizzare Richard Pryor, ridottosi sempre peggio per colpa degli abusi di cocaina a cui l'attore aveva iniziato a lasciarsi andare. Lo stesso Wilder, nella sua autobiografia Baciami come uno sconosciuto. La mia ricerca dell'amore e dell'arte (scritto nel 2005, pubblicato in Italia da Edizioni Sagoma, 2010, prefazione di Mel Brooks), dichiarò che Richard fece letteralmente impazzire Sidney perché cominciò ad arrivare sul set sempre più tardi, fino ad un'ora per ogni ripresa; litigava con i membri dello staff e li accusava di razzismo. Una volta si rifiutò di partecipare ad un ciak fino a quando un operatore non fosse stato licenziato, reo di avergli lanciato per sbaglio sul piede un pezzo di anguria. Per Richard Pryor, reso paranoide della cocaina che sniffava ogni notte, quel lancio fu un affronto terribilmente razzista ed imperdonabile, perché in America i neri erano vittime di uno stereotipo per il quale "solo i negri mangiano angurie".

Squadra che vince, non si cambia: due anni dopo la produzione cercò di riunire il regista e la coppia di attori per girare un nuovo film che bissasse il successo di Nessuno ci può fermare; tutto era pronto, ma all'ultimo Richard Pryor declinò per motivi mai chiariti e la sceneggiatura fu riscritta in modo che il suo personaggio diventasse una donna (interpretata dall'attrice Gilda Radner, diventata successivamente moglie di Gene Wilder) che si innamorerà del protagonista. Quando Hanky Panky - Fuga per due (Hanky Panky, 1982) uscì al cinema, fu però un clamoroso insuccesso al botteghino e lo stesso Gene dichiarò successivamente che quello fu, probabilmente, il peggior film a cui avesse mai partecipato. Io lo vidi anni fa in tv e ne ho un ricordo molto vago: l'impressione che ebbi ai tempi fu quella di un film sconclusionato e infinitamente meno comico di quello che avrei sperato viste le premesse.

Non guardarmi non ti sento (1989)
L'anno successivo si ripresentò una nuova occasione di riunire Gene Wilder e Richard Pryor: il film è il cult natalizio Una poltrona per due (Trading Places, 1983) - non è vera vigilia di Natale se Italia 1 non lo trasmette! - Qui avvenne uno di quegli strani sliding doors di cui la storia del cinema è ricca: durante la fase di pre-produzione, Richard Pryor ebbe un grave incidente. A causa dei lunghissimi tempi di riabilitazione previsti, al suo posto fu scritturato Eddie Murphy che pose una condizione: sostituire Gene Wilder perché Eddie non aveva intenzione di passare per il sostituto sfigato di Pryor; venne quindi scritturato Dan Aykroyd e il resto è storia.
Per ricomporre il duo Wilder-Pryor si dovette aspettare fino al 1989: anno in cui finalmente si ricompose il trio vincente di Wagon-lits con omicidi: la coppia di attori e il regista Arthur Hiller. Il film narra le vicende di Dave (Wilder) e Wally (Pryor), due disabili - il primo è sordo, il secondo è cieco - che per un caso fortuito sono gli unici testimoni di un omicidio avvenuto nel negozio di Dave. Il problema, così recita lo slogan del film, è che il sordo non ha visto e il cieco non ha sentito! La polizia, non credendo alla loro versione, li arresta ingiustamente; prima di essere incarcerati, i due riescono a sfuggire grazie all'aiuto di Adele, sorella di Wally; da questo momento, i due poveracci saranno coinvolti in un intrigo generato dalla presenza dei sicari, di una moneta d'oro che questi cercano, e dei tentativi goffi del duo di scoprire la verità per riabilitarsi.
La formula della sceneggiatura ricalcò palesemente quella di Wagon-lits e il pubblico diede ragione ai produttori perché Non guardarmi non ti sento fu un grande successo al botteghino. Ancora una volta, l'alchimia tra i due attori funzionò egregiamente e, complice la mano del regista in grado di imbrigliarli nel modo giusto, il risultato finale fu ottimo: il film resta godibile ancora oggi e scorre via tra gag esilaranti intervallate da inseguimenti ed uccisioni a mettere un po' di pepe sulla storia. La scena in cui il nero Wally viaggia in metropolitana e finge di scoprire di essere un nero vale tutto il film (non a caso, fu inserita nel trailer). Recuperatelo, non ve ne pentirete.

Non dirmelo... non ci credo (1991)
Tanto mi piacque il film precedente che non vedevo l'ora di rivedere il duo nuovamente in azione; ricordo che mi precipitai al cinema quando Non dirmelo... non ci credo uscì due anni dopo. Purtroppo la visione fu per me una cocente delusione: il film mi lasciò con tanto amaro in bocca perché trovai la performance degli attori molto al di sotto delle loro capacità; allora non sapevo che Richard Pryor fosse affetto da sclerosi multipla, e nel film i segni della malattia intaccarono negativamente e visibilmente la sua performance; e ancora non sapevo che questo film sarebbe stato l'ultima fatica cinematografica di Gene Wilder, che apparve successivamente giusto in qualche film-tv o in alcuni episodi di serie televisive (la più famosa fu in Will & Grace nel 2002), ma che mise comunque la parola fine al cinema anche a causa dei flop commerciali dei suoi ultimi lavori. L'idea di fondo del film non era nemmeno male: il nero Eddie è un truffatore e campa fregando il prossimo; condannato ai servizi sociali, deve prendersi cura di George, uscito dal manicomio nonché contapalle patologico al punto da non sapere mai se stia dicendo la verità o stia raccontando una storia inventata. Un giorno un tizio ferma George per strada e lo scambia (intenzionalmente...) per Abe Fielding, un uomo fortunato destinato ad ereditare una grossa fortuna. L'obiettivo del tizio è chiaro: far credere a tutti che George è davvero Abe per poi ucciderlo ed intascarsi l'eredità. L'intervento di Eddie scombinerà tutti i piani e darà il via alle rocambolesche vicissitudini dei due mentitori seriali. Purtroppo per il film, il suo problema è una... stanchezza di fondo. Gli attori mancano di verve e nel film latita una vera guida; il regista originario Peter Bogdanovich fu addirittura sostituito dopo cinque settimane di riprese. A detta del regista silurato, il problema furono le continue tensioni sul set: secondo Peter, Gene Wilder si era convinto che la troupe fosse eccessivamente concentrata su Pryor a causa della malattia. Lo stesso regista affermò poi che questa sorta di gelosia di Wilder spinse l'attore a fare pressioni affinché ci fosse un cambio alla regia, cosa che appunto avvenne. 


Probabilmente non sapremo mai la verità e mi riesce difficile credere ad un lato così meschino della personalità di Gene Wilder; un passo scritto direttamente da lui nella sua autobiografia ci fa però capire alcune cose: contrariamente a quello che molti potevano pensare guardandoli su schermo, lui e Richard non furono mai amici fuori dal set. Per rincarare la dose, Gene usa queste parole: "Per tutto il tempo in cui lavorammo insieme, [Richard] fu una persona piuttosto sgradevole con cui passare il tempo. Lottava contro i suoi problemi con la droga e non aveva intenzione di coltivare amicizie al di fuori del set."
Quando ho letto questo passaggio, ci sono rimasto male: i due insieme funzionavano davvero bene e mai si sarebbe potuto immaginare quanto invece fossero difficili i rapporti tra loro. A pensarci bene, è successo l'opposto con Mel Brooks: anche se smisero di collaborare professionalmente nel 1974 con Frankenstein Junior, i due restarono molto amici nella vita privata e continuarono a frequentarsi anche successivamente. 

Chi più spende... più guadagna! (1985)
Piccola digressione. Di Richard Pryor voglio citare, prima di continuare, un film che ho sempre adorato nonostante sia ritenuto poco significativo e fosse stato un gran bel flop: Chi più spende... più guadagna! (Brewster's Millions, 1985). Diretto dal grande Walter Hill (il regista de I Guerrieri della notte e della commedia action 48 ore), racconta la storia di Monty, un giocatore di baseball di una squadra sfigatissima di infima categoria che un giorno si scopre essere erede di un vecchio miliardario. Il notaio del vecchio deceduto lo contatta e, seguendone le ultime volontà, gli propone una scommessa: Monty può ereditare uno spropositiliardo di soldi a patto che riesca a spendere 30 milioni di dollari in un mese per poi rimanere senza un centesimo l'ultimo giorno; se fallisce, non vincerà nulla e l'eredità andrà tutta in beneficenza. L'alternativa è non accettare la scommessa ed intascarsi un milioncino piccino picciò. Monty, ovviamente, fa esattamente quello che avrei fatto io al suo posto: accetta. Purtroppo si rende conto che le cose non sono poi così facili: non può donare o buttare soldi, non può perdere tutto in scommesse, non può acquistare quadri per distruggerli e, soprattutto, non deve rivelare a nessuno il motivo di tutte le spese folli che dovrà sostenere, pena l'annullamento della scommessa. Diventa molto carino assistere ai modi che Monty si inventerà per riuscire a spendere tutti quei soldi in un lasso di tempo relativamente breve. In mezzo ovviamente c'è un interesse amoroso e qualche cattivo che gli metterà il bastone tra le ruote, più qualche piccolo colpo di scena innocuo e telefonato che dà un senso di completezza al tutto.
La commedia non è il punto forte di Walter Hill, tanto che la sua mano è praticamente invisibile. Onestamente però non mi spiego le ragioni del suo insuccesso e del fatto che sia un film così sottovalutato, perché pur non essendo un capolavoro, la storia scorre via veloce, gli spunti della sceneggiatura sono anche fantasiosi ed interessanti (nonostante la storia originale risalga ai primi anni del '900) e Richard Pryor e John Candy hanno svolto egregiamente il loro lavoro di attori brillanti. Certo, le trovate a volte sono assurde e poco plausibili, ma siamo nel regno della commedia e a mio parere tutto è concesso a patto che non si mandi la storia veramente in vacca, cosa che qui non è avvenuta. Ed è impossibile non immedesimarsi nel protagonista, perché anche a voi verrà voglia di fantasticare e domandarvi: "Al suo posto, come li avresti spesi quei soldi?". Anche in questo caso, datemi retta: fate almeno un tentativo di guardarlo.

Gene Wilder da regista
Prima di chiudere, una postilla: Gene Wilder non fu soltanto un grande attore, ma anche un fine sceneggiatore e un bravo regista. I film da lui diretti ebbero fortune alterne per critica e botteghino: da questo punto di vista per Gene non esistevano mezze misure, o avveniva la stroncatura solenne o scattava il botto di incassi.
L'esordio alla regia fu con Il fratello più furbo di Sherlock Holmes (The Adventure of Sherlock Holmes' Smarter Brother, 1975). La parodia del genere crime/investigativo funzionò molto bene e si ripresentò al pubblico un'accoppiata di sicuro effetto: Gene Wilder e Marty Feldman, il primo nel ruolo del fratello di Sherlock Holmes, il secondo in quello dell'aiutante dotato di una memoria fotografica prodigiosa.
Il secondo film diretto da Wilder fu Il più grande amatore del mondo (The World's Greatest Lover, 1977) e fu stroncato dalla critica nonostante il successo al box office; lo stesso Wilder affermò che, col senno di poi, non avrebbe fatto alcune scelte che hanno reso il film meno incisivo di quanto avrebbe sperato, soprattutto si pentì di aver reso il protagonista come un nevrotico mentre avrebbe dovuto essere un uomo normale, in cui lo spettatore avrebbe potuto immedesimarsi meglio. La normalità, come ho detto più volte, è il tema portante della sua idea di attore e personaggio funzionale.
Arriviamo finalmente a La signora in rosso (The Woman in Red, 1984): anche questo ebbe accoglienza fredda da parte della critica ma incassò un fantasiliardo rispetto a quanto speso, ed ebbe l'indubbio pregio di far conoscere a tutti la splendida attrice-modella Kelly LeBrock: la scena della grata e della gonna (qui rossa) che si solleva citando Marilyn Monroe entrò nella storia del cinema e nell'immaginario collettivo degli anni '80. Film molto furbo, ha anche una bellissima colonna sonora in linea con il sound synth di quegli anni, inclusa la hit di successo I Just Called to Say I Love You di Stevie Wonder, vincitrice dell'Oscar come Migliore Canzone. Con La signora in rosso Wilder tornò ad interpretare un uomo normale che si innamora pazzamente di una donna tanto bella da risultare irraggiungibile a noi comuni mortali. I suoi tentativi di approccio, talvolta disastrosi talvolta ridicoli, fecero sorridere intere generazioni di sfigati che si identificarono in questo antieroe della quotidianità.

Scena entrata nella storia del cinema...
L'ultimo film diretto da Wilder fu Luna di miele stregata (Haunted Honeymoon, 1986), qui la coppia è Wilder con la moglie Gilda Radner. Il film comico narra le vicende di Larry e Vicky, due presentatori radio appassionati di gialli e storie del crimine e del sovrannaturale; convolati a nozze, vanno nella villa di famiglia dove ne succedono di tutti i colori a causa della pro-zia Kate (un grande Dom DeLuise) e del cugino Charles (Jonathan Pryce, che oggi conosciamo come l'Alto Passero in Il Trono di Spade). Nonostante le premesse, il risultato eccessivamente farsesco e goliardico contribuì al fallimento clamoroso del film, che non recuperò nemmeno i soldi spesi in produzione.

Note finali
Gene Wilder fu un uomo da molte sfaccettature e da una personalità forte e magnetica allo stesso tempo. Spesso amava raccontare che nella vita privata non si riteneva per nulla divertente come invece appariva nei film. La sua non fu una vita facile, segnata da divorzi, malattie gravi e lutti che avrebbero segnato chiunque. Lui ebbe la forza e la dignità di mostrarsi sempre col sorriso, lo stesso che sullo schermo conquistò gli spettatori di ogni età. L'idea di essere considerato una leggenda grazie alle sue interpretazioni più famose quasi non lo sfiorava. Solo una volta, e io mi trovo pienamente d'accordo con le sue parole, fece una dichiarazione sopra le righe: "Fare il remake di Willy Wonka non ha il minimo senso; mi piace Johnny Depp, mi piace molto, ma non credo che mai guarderò questo film. È un errore, è un insulto. È tutto e solo una questione di soldi, la gente si siede e si chiede: come facciamo a fare più soldi?"
Io, romanticamente, provo a leggere fra le righe del suo pensiero, espresso peraltro in modo molto netto e preciso: il suo non fu il rifiuto di vedersi sostituito da un altro attore, sono anzi convinto che il senso del suo discorso fosse un altro. Che bisogno c'era di rifare un film (im)perfetto diventato cult? L'ho visto più come un grido disperato contro la cronica crisi di idee di Hollywood, che la porta a scegliere la strada dei soldi facili senza sprecare tempo ed energie per creare qualcosa di nuovo ed originale.
Per questo, da parte mia non possono che esserci ringraziamenti per averci donato personaggi e battute da conservare nella memoria collettiva.
Grazie, Gene.
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